
Il primo giallo della mia vita
Dopo aver parlato di me e, magari avervi anche annoiato (vedi sezione About), ecco arrivato il momento di scrivere il mio primo post.
Prima di metterlo giù, confesso di aver riflettuto un bel po’ sul romanzo da proporvi per primo. Inizialmente ho pensato alla nuova generazione di scrittori del Nord Europa (molto apprezzati sia dai lettori sia dai critici) che ha saputo fare dei gialli lo strumento attraverso cui raccontare le inquietudini del nostro tempo. E detto fra noi, un pasto ispirato alla tradizione svedese o scandinava non mi sarebbe dispiaciuto. Poi mi sono detta: perché cercare fuori quando abbiamo i romanzi polizieschi di Andrea Camilleri e delle splendide e ricche ricette come quelle siciliane? Infine, mi sono chiesta se non fosse il caso di iniziare proprio da uno degli ultimi gialli che avevo divorato, scritto da Don Wislow: in fondo, con gli scrittori americani si va sul sicuro. E poi, alla fine del libro, c’è una ricetta di golosi tacos , fatti con seriola cotta alla brace, mango e cipolla rossa…
Poco prima di sedermi al computer, invece, ho deciso di andare dove mi portava il mio cuore: al primo giallo della mia vita.
Era il 1982 e avevo 10 anni. A quel tempo, vivevo molto spensieratamente in un piccolo paese del Sud. I Duran Duran, strizzando l’occhio al movimento new romantic, avevano già debuttato l’anno precedente e, dall’altro capo del mondo, Madonna si dava da fare con il suo primo singolo (“Everybody”). Io, però, canticchiavo canzoni più nostrane, come “Celeste nostalgia” e “Dimmelo tu cos’è” (all’epoca mio padre aveva una serie di audio-cassette di Cocciante e di Venditti che ascoltavo e riascoltavo nella sua auto, una 131 Mirafiori blu chiaro).
Nel 1982 tutte le sale cinematografiche d’Italia proiettavano “E. T. l’extraterrestre” di Steven Spielberg, ma il cinema del mio paesino no: quell’anno si limitò a proiettare “Conan il barbaro”, “Rocky III” e “Rambo” (film che naturalmente nessuno si perse, bambini compresi).
A giugno, vincemmo i mondiali di calcio e, per quell’estate, Paolo Rossi, Enzo Bearzot e Sandro Pertini diventarono i nostri eroi, affiancando quelli di sempre (Jeeg Robot, Capitan Harlock, Candy Candy, Lady Oscar…).
La panna, ingrediente che poi sarebbe diventato un simbolo di quegli anni, non era ancora entrata nella cucina di mia madre, perché, ripensandoci, i negozietti del paese non la vendevano ancora e, quindi, i mitici tortellini panna, funghi e prosciutto rimanevano prerogativa di chi faceva la spesa nei supermercati della città vicina.
Come la famigerata panna, anche l’acquisto dei libri era un privilegio di chi frequentava la città. In paese, infatti, non c’era una vera e propria libreria, ma una un’edicola/cartoleria che vendeva anche testi scolastici nel periodo in cui cominciava la scuola. Quell’edicola/cartoleria ha rappresentato, più o meno dal 1980 al 1986, il mio luogo della felicità; il posto in cui spendevo gioiosamente la mia paghetta settimanale per l’acquisto del giornalino di Candy Candy (uno dei primissimi manga giunti in Italia e che io adoravo letteralmente). Ma i libri… quelli bisognava cercarli altrove.
Il settimanale di Candy Candy, a cura del Gruppo editoriale Fabbri (1980-1987).
A casa mia li portava la befana. E ovviamente non bastavano per tutto l’anno. Per mia grande fortuna, però, nella via in cui abitavo viveva anche la madrina di mia madre che aveva due figlie che, frequentando già le scuole superiori, andavano ogni giorno in città con l’autobus.
La più grande, in particolare, anche se non era una studentessa modello (ricordo che le lasciavano sempre materie da recuperare durante l’estate) era, però, una buona lettrice. Quando andavo a casa sua rimanevo come incantata davanti a una piccola libreria di quattro scaffali che conteneva decine di libri.
Fra i libri “Collezione Harmony” (con immagini di copertina molto romantiche e titoli improbabili) e i fumetti di Topolino dall’aspetto molto vissuto, spiccavano anche dei volumetti giallo-limone.
Un giorno ne presi uno e fui molto colpita dalle immagini della copertina e dal titolo. Statuette in cerchio, un mare grigio e inquietante e una piccola isola. “Dieci piccoli indiani”, il titolo; “(…e poi non rimase più nessuno)”, il sottotitolo. Forse fu quest’ultimo a farmi decidere di chiedere in prestito il libro: “di chi non rimaneva più nessuno? E perché?” Erano le domande che già mi ponevo.
Iniziai la lettura ignorando chi fosse Agatha Christie. Era inverno: lo ricordo per il semplice fatto che leggevo accoccolata accanto al camino acceso. Sfogliavo ogni pagina con trepidazione e, a volte, con vera paura, perché in fondo Dieci piccoli indiani è più un thriller che un giallo.
Immagino che tutti conosciate la trama del romanzo…
Siamo nell’estate del 1939. In Europa, l’anno era iniziato con l’occupazione di Barcellona da parte delle truppe del generale Franco (aiutate anche da quelle italiane inviate da Mussolini); era poi proseguito con l’occupazione della Cecoslovacchia da parte della Germania nazista e con il Patto d’Acciaio (e scellerato) che aveva sancito l’alleanza militare tra Mussolini e Hitler; e si stava avviando alla conclusione con la dichiarazione di guerra ai tedeschi da parte di Winston Churchill, appena nominato Primo Lord dell’Ammiragliato (3 settembre 1939).
Questi gli eventi “reali” del 1939. Eppure, l’8 agosto di quello stesso anno, Agatha, ignorando volutamente i venti di guerra che si agitavano in Europa, fa partire otto personaggi partoriti dalla sua fervida fantasia dal porticciolo di Sticklehaven, Devon. Il gruppo è diretto verso una piccola isola che sembra sorgere dal mare, posta di fronte alle coste: Nigger Island. Sull’isola c’è un’unica abitazione: quella del signor Owen, la persona che ha mandato gli inviti per tutti. Nessuno degli invitati di Nigger Island conosce il signor Owen. Eppure, chi per curiosità, chi per bisogno, chi per opportunità, tutti hanno accettato di andare sull’isola.
Una scena tratta dalla miniserie televisiva diretta da Craig Viveiros “And Then There Were None” (2015)
Una volta arrivati alla villa, gli ospiti scoprono che il signor Owen e sua moglie non sono lì: ad attenderli, invece, una coppia di domestici che, come loro, non ha ancora conosciuto i gentili padroni di casa. Dopo la cena (in cui l’autrice sottolinea che sono stati serviti “cibo ottimo” e “vini squisiti”), mentre gli ospiti discorrono tra di loro, una voce registrata, proveniente da un grammofono, li incolpa tutti, inclusi i due domestici, di aver commesso un omicidio, citando date e nomi delle vittime.
Sconvolti dall’inaspettata accusa, ognuno di loro si discolpa, raccontando la propria vicenda. Dopo i loro racconti, noi lettori non siamo più certi della loro innocenza: tutti i personaggi sembrano avere qualcosa da nascondere e ognuno di loro potrebbe essere realmente responsabile dell’omicidio che gli è stato attribuito dalla voce registrata. Di lì a poco, gli ospiti di Nigger Island inizieranno a morire uno alla volta, e in modi differenti: esattamente come gli indiani (in origine negretti) dell’inquietante filastrocca per bambini che è incorniciata e appesa in ogni camera da loro occupata.
Il racconto si sviluppa secondo i canoni dell’enigma della camera chiusa: appurato che non c’è nessuno altro sull’isola, oltre i dieci ospiti della villa, e che l’isola stessa è inaccessibile per via del maltempo, l’assassino deve essere per forza uno del gruppo.
Ho scritto che è più un thriller che un giallo perché l’isolamento assoluto (nessuno può lasciare l’isola e nessuno può arrivare dalla terraferma) e l’assenza di un detective che conduce le indagini creano l’atmosfera tipica di un thriller. Tuttavia, proprio questi due elementi fanno emergere, con una forza narrativa ancora più intensa, il filo conduttore del romanzo: ovvero il rapporto fra il bene e il male; fra la falsità e la colpa degli ospiti di Nigger Island e quell’implacabile giustizia che si arroga il diritto di togliere loro la vita uno alla volta…
Credo di essere rimasta con la bocca aperta quando nelle ultime dodici pagine del libro viene data la spiegazione dei delitti dallo stesso assassino… Inutile scrivere che da allora Agatha è diventata il mio mito.
Dopo 35 anni, devo confessare che questo romanzo non è più fra i miei preferiti. Certo, concordo pienamente con John Curran (il più importante studioso dell’opera di Agatha) e con quanti ritengono che questo libro sia il migliore dell’autrice come tecnica, ma la mia personale simpatia continua a essere rivolta ai suoi gialli più classici, quelli in cui è prevista la presenza di un investigatore o di un’investigatrice (vedi sezione About).
Comunque, rimane sempre il fatto che non si può non leggere questo romanzo se si è appassionati di gialli. Innanzitutto, perché, come tutti i libri che Agatha ha scritto, è molto scorrevole: leggi una pagina, poi un’altra, un’altra ancora… e non riesci a fermarti; non c’è mai un momento in cui dici: “ok, questa parte mi annoia un pò, ora smetto e riprendo a leggere in un altro momento”. Ti stacchi dalla lettura solo se cause maggiori (figli urlanti che litigano per contendersi il tablet o scossa di terremoto di magnitudo 6,5) ti costringono a farlo.
Poi, Dieci piccoli indiani non è solo scritto molto bene, ma è in grado di produrre un effetto simile a quello di una macchina del tempo: non sei più a leggere sul tuo divano, nella tua casa, nella tua città, nella tua epoca. Ti trovi improvvisamente come catapultato nel salotto dell’unica abitazione di Nigger Island: con gonna che fascia le gambe fino al ginocchio e giacca squadrata e stretta in vita, se sei una donna; con un completo spezzato e un fedora di feltro nero, grigio o marrone se sei un uomo. È vero, non starai parlando dei venti di guerra che in quel momento si agitano in Europa, semplicemente perché Aghata ha scelto di tenere fuori la politica dai suoi romanzi. Però, starai sicuramente prendendo un tè, servito dal maggiordomo Rogers, e ti starai chiedendo se la bevanda ambrata contenuta nella preziosa tazza Wedgwood non sia stata avvelenata; ti starai domandando se non tocchi pure a te finire come uno dei poveri piccoli indiani… Intanto, ti fingi interessato a ciò che sta dicendo Emily Brent sui giovani di quel tempo: suo padre, un colonnello della vecchia scuola, era stato sempre molto severo per quanto riguarda il portamento. “La giovane generazione, invece, è così vergognosamente rilassata: nel portamento e in tutto il resto”… Ti sembra di sentire realmente la sua voce!
Rileggendo il libro con occhi “adulti” e, soprattutto con “occhiali” resi speciali dalle lenti della sociologia (materia in cui ritengo di avere una discreta formazione), non posso fare a meno di pensare che, come molti dei romanzi di Agatha, anche Dieci piccoli indiani può rappresentare un documento importante della la storia sociale dell’Inghilterra della prima metà del Novecento.
Altro motivo per cui non si può non leggere questo giallo è che, nonostante l’atmosfera che aleggia nel libro sia più da thriller che da giallo, non ci sono mai descrizioni di violenza e/o di sangue che ti possano turbare. Certo, si muore, e pure tanto, ma le tenebre del delitto sono, per così dire, illuminate da un innato e sottile umorismo che è proprio di Agatha.
Tre motivi appena, dunque, per leggere questo romanzo. Ma immagino che ognuno di voi ne troverà molti altri…
Comunque, ritornando ai tempi in cui lessi il romanzo per la prima volta, dopo tre giorni, dal momento in cui l’avevo preso, ero pronta a restituire il libro alla legittima proprietaria e a chiederne in prestito un altro della stessa autrice. E così vennero (non necessariamente nell’ordine che presento) “La parola alla difesa”, “La sagra del delitto”, “Dopo le esequie”, “L’assassinio di Roger Ackroyd” e “Pericolo senza nome”, dove ebbi il piacere di fare la conoscenza di Hercule Poirot; dopo seguirono “La morte nel villaggio”, “Il terrore viene per posta”, “Istantanea di un delitto” “C’è un cadavere in biblioteca”, “Un delitto avrà luogo” e “Polvere negli occhi” che mi fecero amare alla follia Miss Marple.
Dopo la lettura di questi romanzi avevo deciso: una volta giunta alla maggiore età, mi sarei trasferita nella verde Inghilterra. Sentivo che avrei amato tutto di quella terra. Anzi l’amavo già, grazie ad Agatha. Con un suo libro in grembo, mi sembrava di vedere le scarpate lungo la ferrovia ricoperte di fiori selvatici, i prati dall’erba alta dove grandi cavalli lustri brucano e meditano, i lenti ruscelli in mezzo ai salici, le verdi distese di olmi, la speronella nei giardini delle casette di campagna… Ok, lo confesso, la bellissima descrizione non è mia, ma di George Orwell che, nell’ultima parte del libro “Omaggio alla Catalogna”, parla dell’Inghilterra che ha conosciuto nella sua infanzia (questa citazione, fra l’altro è utilizzata anche da Leonardo Sciascia nella prefazione che scrisse al romanzo “L’assassinio di Roger Ackroyd” –Oscar Mondadori 2011-). Però, la bellissima descrizione avrebbe potuto benissimo essere anche mia, perché chiudendo gli occhi avevo le medesime visioni dell’Inghilterra…
Ma c’era un altro motivo per cui, se avessi potuto, mi sarei trasferita subito nella vecchia Inghilterra… ma dovrete aspettare il mio prossimo post per conoscerlo!
Buonanotte
Angela
5 thoughts on “Il primo giallo della mia vita”
Ti ho scoperta per caso guardando la tua foto instagram dei libri di cucina e notando di averne molti in comune vedi J.Oliver, C.dalla Forza, Artusi ma pure il cofanetto per il cucito di Tiger…. Così ho cercato il blog e adesso vorrei leggere Dieci piccoli indiani, che conoscevo solo come titolo, non trovando mai molto tempo per leggere ma forse non ho mai trovato il libro adatto e appassionante, questo sembrerebbe lo fosse.
Ciao Katia,
mi fa piacere che abbiamo gli stessi gusti culinari. Sì, se vuoi iniziare a percorrere i sentieri del giallo, “Dieci Piccoli Indiani” è il libro giusto! La lettura è molto scorrevole e poi è un giallo ricco di colpi di scena. Spero che i miei post su questo romanzo ti siano stati utili. Grazie per essere passata dal mio blog.
Buona notte,
Angela
Ciao sto leggendo alcuni post del tuo blog. Sono molto interessanti e ben scritti.
L’ho letto…. chissà forse il film mi avrebbe coinvolto di più nonostante abbia cambiato canale quando lo hanno trasmesso, certo che la coscienza ha una forza disumana…in ultima analisi mi chiedo: ma quanto era grande la bottiglia che conteneva l’ultimo messaggio?? Aveva scritto un enciclica!! 😀
Cara Katia,
la tua osservazione sulla bottiglia che conteneva la spiegazione delle morti di Nigger Island denota che sei un’acuta osservatrice…