La pazienza del volumetto blu-spento
Dove eravamo rimasti?
Una scrittrice che non conoscevo. Un titolo che non mi incuriosiva. Un detective che non mi ispirava… Delle tre cose è stata certamente l’ultima quella che più mi ha spinta a lasciare per mesi il volumetto blu-spento sulla mia piccola scrivania bianca.
Perché il detective non mi ispirava?
Ecco, io posso tollerare ogni mania negli investigatori dei miei gialli: per esempio, posso accettare che abbiano una fissa per l’ordine e per la simmetria; posso capire che curino con dedizione esagerata delle orchidee; posso sorridere all’idea che parlino e pensino solo in dialetto siciliano; posso comprendere che qualche volta alzino il gomito; posso persino trovare una valida ragione al fatto che vedano dei fantasmi, ma che siano dei nazisti… non lo posso proprio concepire!
Sì, proprio così, il protagonista-detective del volumetto blu-spento è un ufficiale dell’esercito tedesco (Wehrmatch) e collaboratore dei servizi segreti (Abwehr) ai tempi del nazismo…
Vedete, io, oltre a essere una lettrice noiosamente prevedibile, sono anche una lettrice mostruosamente ingenua, che ama pensare ancora che i detective dei gialli debbano essere cavalieri senza macchia e senza paura. Con qualche piccola mania, certo, ma nulla di più.
In effetti, mi predispone positivamente verso un libro immaginare che il suo protagonista sia sostanzialmente una “brava persona”. Se poi il protagonista è anche un detective, le caratteristiche di “brava persona” devono essere (per me) ancora più accentuate. Un nazista non è una brava persona, se poi è anche un detective, lo è ancora di meno. Ecco perché un giallo storico, con un detective in odore di nazismo, non poteva entrare nella mia camera da letto. Sapevo che non si sarebbe creato alcun legame fra me e il protagonista di quel libro. E sentivo con certezza che non avrei voltato, trepidante, le pagine per sapere cosa gli sarebbe successo.
Dopo parecchi mesi, però, mi è venuto in mente di cercare un po’ di notizie sull’autrice, oltre a quelle che avevo già letto nella quarta di copertina del libro. Così ho digitato Ben Pastor (questo il nome ingannevole) su Google, scoprendo che all’anagrafe italiana è invece Maria Verbena Volpi, nata a Roma, ma sposata con un americano, da cui ha mutuato il cognome Pastor.
Ben, oltre a essere scrittrice di gialli storici e di racconti di genere sovrannaturale è anche una docente di Scienze Sociali presso varie Università americane (Ohio, Illinois,Vermont).
Ho anche scoperto che la sua attività accademica è molto ricca e poliedrica: ha scritto su Federico Garcìa Lorca, sulla “mente genocidiale”, sull’etnomusicologia, sul femminismo in letteratura, sull’archeologia greca e latina, sulla storia dell’emigrazione italiana in Vermont…Devo confessarvi che dopo aver finito di leggere il suo curriculum accademico, una domanda è sorta in me spontanea: ma dove trova il tempo di scrivere anche gialli storici e ghost stories? Non abbiamo tutti 24 ore al giorno a disposizione, o no?
Battute a parte, è stata proprio la biografia dell’autrice che mi ha fatto guardare con occhi più curiosi il piccolo volumetto blu-spento. Piccoli fuochi, il titolo.
Piccoli fuochi…tutto a un tratto pure il titolo è diventato più interessante, anche perché mi ha ricordato qualcosa… Piccoli indiani! D’accordo, lo so, sono Dieci Piccoli Indiani, ma ciò che conta è che la curiosità per il libro si sia attivata! E poi la storia di Piccoli fuochi è ambientata nella Bretagna del 1940: esattamente un anno dopo la partenza dei “dieci piccoli indiani” da un porticciolo del Devon…
Da dove nasce l’associazione Agatha-Ben? Vi spiego subito.
Agatha, scegliendo di non far entrare la politica nei suoi romanzi, aveva accuratamente evitato di parlare dei venti di guerra che nel momento in cui scriveva Dieci Piccoli Indiani si agitavano fortemente in Europa.
Come sarebbe stato invece leggere un giallo, ambientato nello stesso periodo di Dieci Piccoli Indiani, le cui vicende (ricostruite con estrema accuratezza storica, perché è questo che fa sostanzialmente uno scrittore di “gialli storici) sono fondamentalmente basate sulla seconda guerra mondiale?
Ed ecco che, se non ancora il detective, l’associazione del volumetto blu-spento ad Agatha e agli anni ’40 (anni che nei gialli prediligo) mi sembravano una promettente strada da seguire…
Vi racconto un po’ la trama del libro.
È il 24 ottobre del 1940. È un giovedì. Un giovane ufficiale dell’esercito tedesco scende da un treno proveniente da Berlino. Non c’era nessuno ad aspettarlo alla stazione. Non che il giovane prevedesse un benvenuto: era perfettamente capace di raggiungere da solo il quartier generale dell’Abweher (i Servizi segreti tedeschi) su Boulevard Raspail. Conosceva bene Parigi, “la città che non ti guarda”, così come la definivano i suoi compatrioti. Una città, in quel momento, occupata “da amabili conquistatori”: i nazisti. Il giovane è Martin Bora e i Servizi segreti lo hanno incaricato di rintracciare e controllare il famoso capitano Ernst Jünger, il grande scrittore realmente esistito, amante della patria e della guerra che, tuttavia, non appoggiò mai il partito nazionalsocialista, rifiutando di dirigere l’unione nazista degli scrittori.
A tale incarico ufficiale, Bora deve anche affiancare altre ricerche: per ordine del generale Blaskowitz, governatore militare della Francia del Nord (anche questo personaggio realmente esistito e, ricordato per i i suoi rapporti in cui denunciava all’Alto Comando della Wehrmatch le atrocità commesse dalle SS ai danni dei civili e degli ebrei polacchi), deve portare avanti un’indagine segreta sui crimini di guerra commessi dai nazisti. Inoltre, dietro richiesta dell’Ammiraglio Canaris (altro personaggio storico che ha lavorato segretamente per rovesciare il regime nazista), Bora viene coinvolto nell’indagine di un omicidio “eccellente”, avvenuto in Bretagna.
Come ammette la stessa Ben Pastor, anche il personaggio di Martin Bora è parzialmente ispirato a una figura reale: quella del colonnello Claus Schenk von Stauffenberg, un militare tedesco che svolse un ruolo di primo piano nella progettazione ed esecuzione dell’attentato del 20 luglio contro il führer (nota anche come “operazione Valchiria”) e nel successivo tentativo di colpo di stato. Bora non è un nazista, dunque. Ma, in quanto soldato tedesco, la sua fedeltà alla Germania deve essere assoluta. Da qui il dilaniante conflitto interiore vissuto dal personaggio…
Martin Bora è anche il detective della storia. Ma è lontanissimo dalla mia idea di investigatore “classico”: non potrei mai immaginare Hercule Poirot che uccide qualcuno (ok, lo ha fatto in Sipario, ma ha ucciso un pericoloso assassino prima che facesse l’ennesima vittima). Bora, invece, nella sua veste di ufficiale dell’esercito ha il “dovere” di uccidere. Ha il dovere di esplodere, per esempio, il colpo di grazia sui disertori, come quel giovane di Mont-Valerièn, colpevole solo di essersi stancato degli orrori della guerra e di aver mollato il suo battaglione per una camera d’albergo da quattro soldi e una graziosa donnina. Per Bora “soldato” l’esecuzione del giovane disertore non si discuteva neppure: non nutriva alcun dubbio sul fatto che la sentenza andasse eseguita. Il Bora “uomo”, invece, continuerà a “portarsi dietro” lo spettro del giovane disertore fucilato per tutto il resto del libro…
Bora è diverso da Poirot anche nell’aspetto fisico. E questo, son sincera, non mi è dispiaciuto: è giovane (in Piccoli Fuochi ha più o meno 27 anni), alto, biondo e con gli occhi verdi.
Nel libro compare sempre in uniforme, con pastrano, berretto e stivali. Ma, la sua curiosità, le sue capacità logiche e l’amore per la verità lo rendono un investigatore “brava persona” al pari di Poirot e di tutti gli altri detective “classici” che ho conosciuto.
Anche il romanzo, più o meno dal quarto capitolo in poi, pur in un’ambientazione temporale storica, comincia ad assumere i contorni (che tanto mi piacciono) del giallo “classico”.
Bora lascia Parigi e arriva a Landerneau, nella costa nord della Bretagna (detta Finistère, “fine della terra”), per indagare sull’omicidio di Marie Goumelen, una cinquantenne di origine bretone, appartenente a una ricca famiglia del luogo, nonché moglie di Arno Hansen-Jacobi, commodoro della Marina militare tedesca.
I misteri sulla morte della donna sono molti.
Il suo cadavere è stato ritrovato lontano dai luoghi che generalmente frequentava: in campagna, precisamente in un kanndi (una sorta di vasca di pietra che serviva per la lavorazione a mano del lino). Inoltre, è stata prima picchiata selvaggiamente e poi annegata.
Ma forse il luogo del ritrovamento del corpo non è quello del delitto…
Anche sul possibile movente dell’omicidio, poi, le ipotesi sono numerose e contrastanti. Poteva essere stata una rapina finita in violenza, considerato che Albert Maggioni, un còrso con precedenti penali, viene trovato in possesso dei preziosi orecchini di diamante della vittima. Oppure poteva trattarsi di motivi connessi alla passione del marito di Marie per la giovane Nadine Lisieux, più nota come La Mome Chouette, conturbante cantante di cabaret. O, potevano essere delle motivazioni economiche legate al fatto che la vittima prelevava ingenti somme di denaro dal suo patrimonio per donarle alla Chiesa. O, ancora, potevano riguardare i pessimi rapporti con il figlio, Manfred Hansen-Jacobi (che tanti anni prima le aveva sparato in modo accidentale durante una battuta di caccia…). O, infine, Marie poteva essere stata l’oggetto di un ricatto, considerato che, pochi giorni prima della sua morte, all’insaputa sia del figlio che del marito, si era fatta mandare la cospicua somma di cinquantamila marchi dalla sua banca di Berlino…
Questi gli interrogativi a cui Bora è incaricato di rispondere. Ma prima che ci riesca, altri omicidi verranno commessi. Alla fine, le tristi circostanze che hanno portato alla morte di Marie Goumelen verranno accertate, rivelandosi piuttosto diverse da ciò che era stato inizialmente ipotizzato. Il colpevole verrà processato e condannato, ma intato Bora ha già lasciato la Francia per una nuova indagine…
Ora vi starete chiedendo perché, in ben due post scritti sul giallo Piccoli Fuochi, il cibo non sia minimamente entrato nel discorso. Eppure siamo in Francia, un Paese noto a tutti per le sue ricette gourmand!
I motivi di questa grande assenza sono due: la guerra, che porta penuria di alimenti, e il carattere, molto controllato, del nostro soldato-detective.
Ben Pastor, da brava scrittrice di gialli storici qual è, in una Francia occupata dai nazisti, non poteva certo descrivere situazioni in cui il cibo fosse protagonista. E, in effetti, l’unica volta che Bora cena in un ristorante a Parigi (da Chez Alexis, nei dintorni di boulevard de Sébastopol, dove bistrot e bordelli affollavano i marciapiedi) è in compagnia di Hans Kinzel, colonnello dell’Abwehr, che gli impartisce gli ordini relativi all’esecuzione del giovane disertore di Mont-Valerièn. Roba da togliere l’appetito. E, in effetti, Bora perde anche il poco appetito che aveva e lascia che sia il suo superiore a ordinare per lui: anatra arrosto, perché quel giorno non era disponibile il muggine della Loira… Per il resto della storia (che però si svolge in un lasso di tempo piuttosto breve –dal 24 ottobre al 3 di novembre-), invece, il nostro soldato-detective sembra non avere molto tempo e molta voglia per nutrirsi e, a parte, il caffè (che, fra l’altro non era vero caffè, ma cicoria tostata), non sembrava desiderasse altro.
Delusi? Non preoccupatevi, una soluzione alla penuria di cibo del romanzo la trovo! Ma dovete darmi un altro po’ di tempo per la ricerca delle ricette adatte…
A presto,
Angela
P.S. Ho dimenticato di scrivere che ho scoperto il perché del titolo Piccoli fuochi. Ben Pastor si riferisce all’affermazione di Manfred Jacobi, figlio di Marie Goumelen, che nell’ottavo capitolo dice: «Mi sembra di correre in cerchio, o di arrampicarmi, o di spegnere piccoli fuochi molesti uno dopo l’altro. Non dovrei preoccuparmi, dovrei godere la vita e circondarmi di ragazze semplici…». Niente a che vedere con i “dieci piccoli indiani”, dunque. Ma poco importa: ormai la lettura del libro è terminata ed è stata anche molto interessante!
3 thoughts on “La pazienza del volumetto blu-spento”
Gran bel post, ho apprezzato l’accostamento insolito tra “Piccoli fuochi” e “Dieci piccoli indiani”.
Da affezionata lettrice della Pastor (me li sono letti tutti, i suoi libri, pure quelli introvabili…), devo ammettere che Martin Bora, pur con quella divisa, sì fa voler bene. Assai.
Grazie! Apprezzo molto che una lettrice di Ben Pastor abbia trovato interessante il mio post. “Piccoli fuochi” è il primo libro che leggo di questa bravissima scrittrice, ma ne seguiranno molti altri. Hai ragione su Martin Bora: affascina. Assai!
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