Retroscena

Retroscena

Uno dei miei primi post, pubblicato circa due anni fa (se vuoi leggerlo clicca qui), descriveva i retroscena che si celavano dietro al mio (allora giovane) blog. In realtà, i retroscena descritti allora non era altro che sprazzi della mia “normale” quotidianità, la vita che scorreva al di là dello schermo dal quale si stava leggendo l’articolo.

Anche oggi sento la necessità di descrivervi i retroscena del mio prossimo articolo, quello che spero di pubblicare non appena l’ispirazione necessaria a concluderlo deciderà a farsi viva. La verità è che la terribile emergenza sanitaria che stiamo vivendo (e che ha come protagonista un maledetto puntino che si crede un re -come ama ripetere mio figlio-), assorbe gran parte dei miei pensieri e delle mie energie creative. Non solo. La mia vita, la nostra vita, è radicalmente cambiata.

Ricorderò sempre il modo in cui ho saputo che “Sua Maestà” era approdato anche in Italia (più precisamente, in Lombardia, nel Lodigiano, a Codogno, insomma a una quarantina di chilometri da dove abito). E credo che tutti, anche fra 20 anni, saranno in grado di dire esattamente cosa stessero facendo nel momento in cui hanno appreso la notizia. Così come è accaduto per l’11 Settembre. Chi di noi non è capace di ricostruire esattamente ciò che stava facendo nel preciso istante in cui ha saputo del primo aereo, e poi del secondo, che si schiantavano contro le Torri Gemelle? Purtroppo, anche questa emergenza sarà ricordata come uno spartiacque che ha tracciato un prima e un dopo nella vita di tutti.

Un carabiniere che controlla il traffico di entrata e di uscita nell’area di Codogno, Lodi. Feb. 24, 2020. (AP Photo/Antonio Calanni)

Quel venerdì ero uscita dalla scuola in cui insegno alle 16:40. Mio marito era venuto a prendermi in macchina e mentre lui guidava verso casa, io ho controllato il cellulare. Ho notato subito molte chiamate da parte di mio padre: la cosa non mi ha inquietato più di tanto. Sapevo che il giorno dopo sarebbe partito da Torino diretto a Milano. Probabilmente, voleva solo comunicarmi l’ora in cui sarebbe arrivato alla Stazione Centrale.

L’ho richiamato e dall’altro capo del telefono, dopo un saluto veloce, è arrivata la domanda: “ma è sicuro venire da te con quello che sta succedendo?”.

Io sono “cascata dal pero”, perché, generalmente, quando sono con i miei giovani studenti non mi “connetto” al mondo esterno, se non attraverso il RE (registro elettronico) oppure la LIM (la lavagna interattiva multimediale).

“Perché, cosa sta succedendo?” Ho chiesto confusa.

“Ma non hai sentito del virus? E’ arrivato a Codogno, Lodi”.

Non c’era bisogno che specificasse altro, sapevo a quale virus si riferisse: da settimane le inquietanti immagini made in China scorrevano su tutti gli schermi a nostra disposizione…

Tuttavia, in quel momento, ho pensato che fosse un problema di qualche famiglia rientrata dalla Cina, non di “noi italiani”. Non mi chiedete il perché di questo primo e superficiale pensiero. Non potrei darvi una risposta sensata. O forse sì. La risposta c’è e si chiama PRE-giudizio, che in senso strettamente sociologico, è quel giudizio anticipato rispetto alla valutazione dei fatti.

Ora, senza scomodare eminenti personaggi della Sociologia contemporanea e non (come Allport, 1954; Gadamer 1965; Moscovici, 1984, per citarne solo alcuni), quello che ho fatto io, (quello che abbiamo fatto in molti, in realtà), almeno all’inizio, è stato un “azzardo ipotetico generalizzante”, sul quale, però, successive “verifiche” mi hanno costretto (ci hanno costretto), man mano, a fare delle “correzioni”. E che “correzioni”!

Ma ritorniamo a quel fatidico weekend. Appena sono arrivata a casa, ho acceso la tv e la notizia che mi era stata comunicata per telefono ha cominciato ad assumere contorni più “reali”. No, non erano cinesi rientrati da Wuhan gli infetti. E non erano neppure mai stati in Cina. In quel frangente, la prima cosa che mi è venuta in mente è stata l’uscita scout con pernotto che il giorno dopo mia figlia avrebbe fatto proprio nel Lodigiano. Mi sono precipitata a chiamare uno dei responsabili del Reparto per disdire la sua partecipazione: ero un po’ imbarazzata al telefono. Mi sentivo una mamma “allarmista”. In serata arriva invece la notizia ufficiale della cancellazione dell’uscita da parte dell’Associazione Scout.

Intanto, il giorno dopo mio padre ha preso un regionale da Torino ed è arrivato a Milano: ma non alla Stazione Centrale, come faceva di solito, ma alla stazione Garibaldi.

In quelle prime ore dalla diffusione della notizia, almeno io, ero ancora nella fase: “sì, alcuni italiani si son beccati l’infezione, ma…” E in quel “ma”, c’era ancora tutto un mondo.

Nelle successive 24 ore, ho dovuto invece realizzare che l’epidemia e i suoi effetti non sarebbero stati circoscritti a Codogno e al Lodigiano.

Domenica sera arriva anche l’ufficialità della notizia della chiusura delle scuole di ogni ordine e grado in tutta la Lombardia.

Il  24 febbraio è stato il primo insolito lunedì senza scuola. Domani saranno esattamente cinque le settimane senza lezioni o, meglio, senza quelle “tradizionali”.  

Da quel venerdì in poi, comunque,  è stato un susseguirsi di eventi che, come tutti, non ho esitato a definire “oltre la realtà”: l’assalto ai supermercati, la fuga verso il Sud, l’euforia da spavento che ha portato migliaia di italiani a cantare sui balconi, le salme dei cittadini di Bergamo morti per Coronavirus trasportate da camion dell’Esercito Italiano per essere poi cremate altrove (considerato che i cimiteri della città non avevano abbastanza posti per ospitarle), fino ad arrivare, oggi, a una Milano ormai deserta e silenziosa…

I balconi e le finestre degli italiani al tempo del Coronavirus

Solo i film e i libri di fantascienza avrebbero potuto immaginare e descrivere simili scenari. E alcuni, in effetti, li hanno realmente immaginati e descritti: come il film di Steven Soderbergh Contagion (2011) e il libro di Dean Koontzl The Eyes of Darkness (1989). Per non parlare poi della frase profetica dello scienziato di Jurassic Park nel film diretto da Steven Spielberg (basato sull’omonimo romanzo di Michael Crichton): “una farfalla batte le ali a Pechino e a New York arriva la pioggia invece del sole”. Era il 1993. 

            Ritornando a miei “retroscena”, dal 21 febbraio, giorno dopo giorno, la mia quotidianità è cambiata. Il “distanziamento sociale” (unica arma, al momento, contro il maledetto puntino che si crede un re) ha finito per cancellare tutti i miei impegni (lavorativi e non), tutte le mie consolidate abitudini, costringendomi a inventare delle nuove routine in una nuova dimensione domestica.

Mi avete spesso sentita lamentare del fatto che la vita fosse troppo piena di scadenze, di cose da fare. Ecco, ora la mia agenda è un susseguirsi di righe cancellate. Martedì,  25 febbraio: collegio docenti. Annullato. Giovedì, 27 febbraio: corso sulla differenziazione didattica. Annullato. Lunedì, 2 marzo: accompagnare Ale a lezione di yoga. Annullato. Venerdì, 6 marzo: uscita didattica al Museo Egizio di Torino. Annullata. Lunedì, 9 marzo: riunione con il team insegnanti. Annullata. Giovedì, 12 marzo: appuntamento con la nutrizionista. Annullato. Venerdì, 13 marzo: progetto “gara di lettura”. Annullato. Giovedì, 26 marzo: secondo incontro sulla differenziazione didattica. Annullato. Venerdì, 27 marzo: Musical Cenerentola, Teatro della Luna. Annullato. E le cancellazioni vanno oltre, è chiaro: dal saggio di danza di Eli, agli eventi (per me molto attesi) del Salone del  Mobile che avrebbero dovuto svolgersi a giugno.. .

Da circa un mese, sto lavorando da casa, a volte in vestaglia, con la tazza di caffè lungo sempre alla mia destra. Vado avanti così per ore, correggendo i compiti che i miei giovani studenti mi inviano attraverso la piattaforma attivata prontamente dall’istituto scolastico nel quale insegno. Solo se è prevista una videoconferenza (con i colleghi, con il dirigente scolastico o con gli studenti) mi vesto e, a volte, mi trucco come facevo prima del Coronavirus. Diversamente, tolta la vestaglia mi infilo la tuta, rimanendo in ciabatte tutto il giorno.

Smart working

Fra una videoconferenza e l’altra, fra la pubblicazione di un compito e la correzione di un altro, poi, si aggiunge anche seguire mio figlio di 7 anni (fortunatamente, la maggiore è autonoma): anche lui ha le sue video-lezioni e i relativi compiti da svolgere, compiti che poi devono essere scansionati e inviati alle sue insegnanti.

Naturalmente il lavoro in cucina è aumentato molto: della serie “scuole chiuse, cucine aperte”. Infatti, a partire dalla colazione, che è diventata “speciale” quasi tutti i giorni (e non solo al sabato e alla domenica come una volta), le richieste di comfort food a casa mia sono fra le più svariate: pancake con bacon e sciroppo d’acero, gelato alla fragola, torte con panna, pasticcio di carne, spaghetti e polpette… a volte  mi sembra di lavorare in una trattoria!

Il tempo che credevo di guadagnare dalla cancellazione di tutti gli impegni, in realtà non è poi così tanto da poter essere investito nei miei “frammenti di felicità” (scrivere sul blog e leggere gialli) e, in più, sembra anche che esso non abbia confini definiti.

La mia casa (che fortunatamente adesso è grande) è diventata un contenitore di tutto: famiglia, lavoro, creatività, hobby. E’ vero, alcune stanze e alcuni angoli sono mutati in “home office”, con l’idea di separare le attività, ma il tempo del lavoro e il tempo del non lavoro finiscono lo stesso per sovrapporsi continuamente, stravolgendo alcune routine che stavo faticosamente costruendo.

Ma detto questo, oggi mi sento una privilegiata: sono al sicuro, nella mia casa, in modalità smart working, e posso anche confortare con del buon cibo tutti i miei cari.

Uno dei nostri comfort food preferiti: spaghetti con polpette…che volete? Siamo italiani!

Non vivo come un sacrificio “stare a casa” e “lavorare da casa”. Ci sono persone che a casa non ci possono stare: perché stanno prestando cure ai malati (ricercatori, medici, infermieri, personale ausiliario) o perché lavorano nei servizi essenziali (farmacisti, personale dei supermercati, dipendenti delle Forze dell’ordine, dipendenti delle Poste Italiane, agricoltori e allevatori, autisti di mezzi pubblici, corrieri che consegnano a domicilio). A loro va tutta la mia gratitudine. Tutta la mia ammirazione.

Quello che mi spaventa è però la mancanza di una data: quando tutto questo realmente finirà? E quali costi, nel frattempo, avranno pagato le categorie e i soggetti più deboli della nostra società? Non posso fare a meno di pensare alle famiglie dei lavoratori precari e a chi lavora nel sommerso. O a tutti quei bambini e ragazzi che non possono accedere alla didattica a distanza per mancanza di risorse economiche e culturali . O ancora a quelle donne costrette a casa con uomini violenti che le maltrattano o le picchiano…

Quando tutto questo finirà, ognuno di noi, a secondo dei ruoli, dovrà rimboccarsi le maniche e rimediare ai danni causati da “Sua Maestà”.

Questi i retroscena del mio prossimo articolo, sempre se tornerà l’ispirazione per finirlo …

Digital Kisses,

Angela

2 thoughts on “Retroscena

  1. Scenario da fantascienza vissuto in una dimensione domestica: sì, l’ha raccontato molto bene. Un mio amico che sta in Polonia dice che gli sembra di vivere in un videogioco. Game over… Come dici, non sappiamo quando finirà e quando finirà saremo cambiati. Ma non migliori. Non credo nel virus salvatore, mi sembra Voldemort. Un abbraccio virtuale ma sincero 🤗

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