Tapas, paella, sangria e… tanta nostalgia
Fra gli scopi di questo blog vi è anche quello di selezionare e cucinare piatti citati o legati in qualche modo ai romanzi gialli che vi propongo, per poi condividerli con persone, almeno per me, speciali. Ciò è quello che io definisco “riassaporare” un libro nel senso pieno della parola (vedi anche sezione About).
Oggi, finalmente, vi parlerò dell’ospite e delle ricette relative al libro Storie di fantasmi di Manuel Vazquèz Montalbàn.
L’ospite è Rosa, mia cugina. No, più di una cugina: una sorella. E non ci potrebbe essere persona più adatta di lei per una cena dalle atmosfere spagnoleggianti. Perché?
Perché Rosa è solare, simpatica, generosa, amante del buon cibo e della buona compagnia, eternamente a dieta senza mai esserlo davvero (come del resto chi scrive). E poi perché è stata lei che, più o meno 14 anni fa, ha portato i sapori della Spagna (olè!) in famiglia. Durante gli anni dell’università, tramite l’Erasmus, ha vissuto e studiato a Valencia per due anni. E sapete qual è stata la primissima cosa che si è trascinata dalla Spagna? Una paellera enorme! Non chiedetemi come abbia fatto in aereo: non l’ho mai capito! Quello che so è che, complice quella grossa padella, ogni occasione, ai tempi dell’università, era buona per festeggiare con paella alla valenciana e sangria. E vi assicuro che Rosa è bravissima a cucinare questo piatto perché a Valencia ha lavorato in un ristorantino tipico.
Ho già accennato a lei nel post “Storie di notti di inizio estate”, parlando del mio quadernetto con la copertina piena di zuccherini in cui scrivevo le mie storie terrificanti.
È stato un matrimonio in famiglia, celebrato a metà giugno, a riunirci nel nostro paese natìo per una manciata di serate. Eppure un tempo vivevamo praticamente insieme, anche se fra di noi c’è una differenza di età di 5 anni.
All’inizio ero la sua baby tata che, a volte, le leggeva la sua versione della storia dell’autostoppista fantasma, trascritta sul quadernetto con la copertina piena di zuccherini…
Poi, quando ormai avevo 15/16 anni, le concedevo di uscire con me. Ricordo che una volta la portai a prendere un thé a casa di una amica: mangiò una scatola intera di cioccolatini con ripieno di crema alla nocciola e poi stette molto male per due giorni. Ancora oggi, non vuole neppure sentire nominare quel tipo di cioccolatini!
Per il resto, che dire, abbiamo praticamente vissuto le stesse esperienze (belle e brutte) e frequentato (anche se in tempi leggermente diversi) i medesimi posti: la stessa scuola materna, lo stesso liceo, la stessa università…
Oggi Rosa vive nell’Inghilterra del Sud (il posto in cui avrei voluto vivere io!), nella ridente cittadina che si affaccia sul Mare del Nord e dal cui porto è partito il mitico Titanic.
Si trova lì perché l’Italia non aveva un lavoro per lei. E dire che, armata di tanto entusiasmo (tipico del suo carattere) e di una laurea in chimica, ha cercato in lungo e in largo per più di anno. Poi, prima di permettere ai risultati dell’infruttuosa ricerca di deprimerla, ha pensato bene di partire per l’Inghilterra e utilizzare il suo tempo “libero” dal lavoro per rendere il suo inglese più fluente.
I suoi programmi per l’immediato futuro non erano né ambiziosi né complicati: avrebbe seguito un corso di lingua al mattino e la sera avrebbe fatto la cameriera in qualche caratteristico pub. Ad aiutarla, almeno per i primi tempi, Peppe e Maria, due ragazzi italiani conosciuti all’università, e che in quel momento stavano frequentando un corso di dottorato all’università di Southempton.
Una volta arrivata in Inghilterra, questi amici le fanno notare che con la sua laurea avrebbe potuto ottenere molto facilmente un lavoro nel laboratorio del dipartimento di chimica dell’università. Presenta domanda e ottiene il posto. Rosa è incredula: pensava che ciò che si diceva del Nord Europa era solo una leggenda metropolitana… Da lì, produrre documentazione per ottenere la borsa di dottorato in Structural and Material Chemistry, il passo è stato veramente molto breve.
Questo avveniva all’incirca 13 anni fa. Oggi Rosa, oltre che essere moglie di Gerardo e mamma di due adorabili monelli (Daniele e Maya), è il Product Manager di una multinazionale anglo-americana. Un lavoro che la impegna molto e che le sta facendo girare il mondo. Per farla breve, la mia cara cuginetta è quella che i miei colleghi sociologi definirebbero una knowledge worker (Peter Drucker 1959) o «una creativa di professione» (Richard Florida 2003) o una lavoratrice che offre «servizi di tipo simbolico-analitico» (Robert Reich 1993). Ma per noi di famiglia, è la “ragazza” di sempre: a volte pasticciona e incline a fare figuracce per la sua cronica distrazione, quando si tratta di vita non lavorativa…
Ma veniamo alla nostra cena in onore di Vazquèz Montalbàn, o di Pepe Carvalho, se preferite.
Per la serata, che abbiamo organizzato a casa di mia zia, ci siamo divisi i compiti: io ho cucinato la casseruola di ripieni di Biscuter e lei la paella alla valenciana (trovate qui la sua ricetta).
Ma per rendere ancora più festaiola la cena, ho pensato di preparare anche delle tapas.
Mentre le preparavo, seguendo l’interpretazione di Jamie Oliver del libro Le mie ricette da… (Tea 2010), mi sono resa conto che la sensazione di familiarità che mi suscitavano quei piattini era veramente grande.
Il termine tapas deriva dal verbo spagnolo “tapar” che significa “tappare”. In effetti, esse sono nate proprio dall’esigenza di “tappare”, ovvero coprire i bicchieri dei bar con piattini o con ciotole per impedire che mosche, zanzare e altro genere di insetti si suicidassero nelle varie bevande servite. Poi, un intraprendente barista spagnolo deve aver pensato di riempire quei piattini con pezzetti di formaggio, olive, acciughe o sardine, oppure con della frittata di cipolle avanzata dalla cena o dal pranzo… Ed ecco le tapas.
É fuor di dubbio che oggi le tapas e la sangria siano un elemento chiave della gastronomia spagnola. Eppure posso assicurarvi che per noi del Sud non sono una “vera” novità: più o meno gli stessi piattini da sempre compaiono anche sulle nostre tavole, quando un ospite inatteso passa per un saluto veloce; e il vino rosso profumato dalle pesche (immerse per qualche ora nel liquido alcolico) o quello reso piacevolmente fresco e dolce dalla gassosa al limone, è noto a tutti dalle mie parti, anche se non è chiamato sangria…
Al Sud, la scusa per imbandire la tavola con “stuzzichini”, è l’assaggio del bicchiere di vino prodotto quell’anno. Seguono poi i vari piattini colmi delle tante bontà preparate in casa: olive in salamoia aromatizzate all’aglio, al peperoncino e ai semi di finocchio; soppressata (uno dei nostri salami più tipici); salsicce stagionate piccanti (simili e forse più buone del famoso chorizo), sardine salate al peperoncino, sardella (neonati di pesce azzurro, salati e conditi con peperoncino in polvere), melanzane e pomodori secchi sott’olio, pecorino stagionato… il tutto accompagnato da pane fatto in casa e cotto nei forni a legna. Se poi si arriva alle nove di sera e l’aperitivo non accenna a terminare, una brava padrona di casa del Sud si preoccuperà anche di rinforzare i piattini con altre pietanze preparate al momento fra una chiacchiera e un’altra: patate e peperoni fritti in padella (o polpo e peperoni o alici e peperoni, se si è nelle zone di mare), frittata di cipolle o di zucchine, polpette fritte (di carne o di melanzana) o fatte al sugo, melanzane ripiene (se le abitudini culinarie delle donne del Sud non sono drammaticamente cambiate, è più che probabile che ci sia sempre una teglia pronta di verdure ripiene in frigo o in freezer)… Non chiamiamo questi stuzzichini tapas, ma “ancuna cosa pi spizziculiari”. Tuttavia i sapori sono quelli. Così come pure la filosofia alla base: condividere in allegria un bicchiere di vino o una birra ghiacciata, accompagnati da piatti semplici, ma sfiziosi e, soprattutto, velocissimi da preparare.
Per la mia cena in onore di Carvalho e in onore di Rosa ho preparato quindi un “trionfo di tapas” unendo l’interpretazione che Jamie Oliver dà di questi stuzzichini (Le mie ricette da… edito da Tea 2010) al piglio tipico di noi, gente del Sud.
Poi ho preparato la casseruola di ripieni: zucchine, pomodori, melanzane e peperoni imbottiti di carne trita di maiale, profumata con noce moscata. È la ricetta che Biscuter prepara di buon mattino nel cucinino dell’ufficio di Carvalho, sito sulle Ramblas di Barcellona. Ed è, anche questa, una ricetta molto familiare per chi, come me, è del Sud.
Magari nel Meridione non avremmo utilizzato la noce moscata. E al posto del manchego avremmo messo il pecorino crotonese. Ma più o meno siamo lì.
E vi dirò di più: non ho avuto necessità di cercare la ricetta su internet o su ricettari spagnoli o sul libro Ricette Immorali che ha scritto lo stesso Vazquèz Montalbàn. No. L’ho preparata semplicemente come pensavo dovesse essere fatta. Mescolando ingredienti noti. Ripetendo gesti familiari, visti fare a mia madre decine di volte: scavare la polpa delle verdure, affettarla finemente, soffriggerla con olio e un po’ di aglio, infine unirla alla carne trita. Ma poi ho pensato di discostarmi un pochino dalla cucina delle mie origini e di introdurre la salamella lombarda, perché il sapore di questa salsiccia mi ha sempre fatto pensare alla noce moscata…
Non avendo a disposizione il Tinto de Verano per fare la sangria originale, abbiamo bevuto della birra ghiacciata e una sangria inventata da noi: con un vino gradevole e frizzante della nostra terra, fette dei nostri agrumi, more selvatiche, rametti di menta e fragole.
La serata è scivolata lentamente verso la notte, ricordando i giorni gioiosi dell’infanzia e della giovinezza e quelli bui degli ultimi anni…
La vita ci ha tolto tanto: è vero. Ma, guardando i volti sorridenti dei nostri figli, non possiamo che essere grate di quello che abbiamo e del futuro che ci aspetta.
15 thoughts on “Tapas, paella, sangria e… tanta nostalgia”
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