TUTTO È PIU’ BUONO SU UNA TORTILLA

TUTTO È PIU’ BUONO SU UNA TORTILLA

L’ultimo articolo che ho pubblicato sul mio blog (clicca qui se vuoi leggerlo) risale al 25 agosto e parla di un viaggio a Honolulu, di onde, di surf e di frutta esotica…

Sarà che l’estate è ancora lontana; sarà che da ottobre le attività della mia giornata si alternano fra casa, lavoro e, a volte, supermercato; saranno le nuove limitazioni per l’emergenza sanitaria… sarà tutto questo, ma non riesco a togliermi dalla mente l’immagine di un surfista che cavalca onde gigantesche.

Premetto che non ho mai toccato una tavola da surf e che, pur essendo Pesci il mio segno zodiacale, non ho mai osato “sfidare” l’acqua in alcun modo, anche se sono sempre stata affascinata da chi riesce a governare un elemento mutevole e imprevedibile come il mare.

Surfer

Allora perché proprio il surfista?

Sicuramente perché è un’immagine che ci riporta all’estate, un periodo in cui siamo stati relativamente “liberi”; e poi perché il surf richiama uno dei luoghi che, nell’immaginario collettivo, resterà sempre un mito: la California, che tutti (chi per un motivo, chi per un altro) sognano. L’hanno sognata i coloni e i cercatori d’oro del XVIII secolo e poi i nostri migranti ai primi del Novecento. L’ha sognata la generazione che insieme ai Dik Dik cantava “ti sogno California e un giorno io verrò” (nonostante la guerra del Vietnam). La sognano le imprese e gli appassionati di innovazioni tecnologiche, per quella curiosa storia dei “garage” della Silicon Valley, nei quali sono nate le più importanti multinazionali high-tech del pianeta. E, ovviamente, la sognano i surfisti, che per quanto dicano che le “onde perfette” non esistano, le continuano a cercare proprie sulle sue coste. La verità è che nell’immaginario collettivo, la California è e resterà per tutti la rappresentazione tangibile di un sogno, l’american dream. Un sogno che neppure la pandemia ha il potere di intaccare, perché è, appunto, un posto immaginario in cui possiamo rifugiarci in attesa che il peggio passi.

Ma l’immagine del surfista è anche una metafora dei sentimenti di rivalsa che tutti abbiamo maturato verso il Covid 19 e verso tutte le perdite che esso ha causato (quelle umane, in primis).

Si racconta, infatti, che la pratica del surfare  ha in sé un desiderio quasi atavico di libertà e un irriducibile senso di ribellione. Il surfista è sempre pronto a procurar battaglia sfogando in questo modo la sua primitiva voglia di libertà. E mai, come in questo periodo storico, “senso di ribellione” e “voglia di libertà” accomunano così tanti individui in tutto il pianeta, me compresa.

E si dice anche che il surfista non sfidi tutte le onde, ma scelga solo quelle che si sente di affrontare, sapendo chel’onda perfetta non esiste. Nell’attimo stesso in cui si accorge, infatti, che non è possibile cavalcare un’onda, egli sceglie di immergersi e di attraversarla. Sceglie di sentirla addosso, per poi scoprire, una volta riemerso, che il peggio è passato. Nell’immagine del surfista che si immerge e attraversa l’onda c’è una sorta di indicazione di come sia possibile vivere e attraversare le situazioni che ci causano emozioni forti e/o negative, come quelle che stiamo sperimentando, da un anno a questa parte, a causa dell’emergenza sanitaria. La soluzione non sarebbe quindi negare le nostre emozioni, ma affrontarle (attraversarle) vivendole.

Ormai l’articolo ha decisamente preso la piega del surf e, a questo punto, vi starete già chiedendo di quale romanzo vi parlerò. In effetti, prima del 2015 non mi era mai capitato di leggere un giallo ambientato nel mondo del surf. Poi, in un quid pro quo natalizio (se non sai cos’è clicca qui) ne ricevetti uno come dono. Quello che lessi nella quarta di copertina mi piacque subito: “Ex poliziotto, ora investigatore privato, Boone Daniels non chiede molto alla vita: gli basta uscire all’alba con la sua tavola da surf insieme alla sua inseparabile pattuglia di amici, e avere sempre sottomano una tortilla da riempire di carne, pesce, uova, quel che capita… “ (Dalla traduzione di Luca Conti per Einaudi).

Non so dire se fui più intrigata dai termini “investigatore privato”; oppure dalle frasi “gli basta uscire all’alba con la sua tavola da surf… e avere sempre sottomano una tortilla da riempire di carne, pesce, uova, quel che capita”; o ancora dal commento di Sergio Pent (“l’Unità) che definiva lo scrittore di quel libro un “signor narratore, di quelli che ti chiamano in causa e ti fanno entrare in squadra nel loro lavoro, ti fanno partecipare anziché assistere …” Comunque sia, decisi di leggere La pattuglia dell’alba (questo il titolo del romanzo) di Don Wislow, uno degli autori americani più affermati del crime contemporaneo, dotato di uno straordinario talento narrativo.

Con  La pattuglia dell’alba (titolo originale: The Dawn Patrol) ho fatto la conoscenza di Boone Daniels, dei suoi amici (gli altri singolari componenti della “pattuglia” che si ritrovano a fare surf all’alba, perché alle 9:00 devono presentarsi alle loro“normali” attività lavorative) e della città di San Diego.

Boone, dalle parole di Wislow, è “la quintessenza del surfista: concepito sulla spiaggia, nato a mezzo miglio di distanza e cresciuto a tre isolati da dove l’onda si frange con l’alta marea. Suo padre surfava, sua madre altrettanto: questo spiega perché l’abbiano concepito sulla sabbia”. Inutile, aggiungere (e questa volta sono parole mie) che è anche dannatamente bello, e che è tutto e il contrario di tutto. Semplice (a volte, addirittura sempliciotto) in superficie, straordinariamente complicato al di sotto. Una sorta di Tarzan in versione surfer che di notte legge romanzi russi e, che, se invitato a un evento elegante, sa abbinare magnificamente un completo cachi con una camicia blu Perry Ellis. Uno che pranzerebbe sempre e solo al Sundowner con hamburger e patatine fritte, ma che sa arrostire alla perfezione il pesce da lui stesso pescato su un falò sulla spiaggia. Un tipo grezzo che, se spinto a farlo, può parlare di arte in modo intelligente. Un cinico che in realtà ragiona con evidente idealismo. Un uomo che tende a indietreggiare davanti a qualsiasi cosa possa somigliare a un’emozione, ma, allo stesso tempo con un animo sensibile. Un surfer dal corpo scolpito che potrebbe avere ogni ragazza ai suoi piedi, ma che  è capace di uscire con la ragazza che gli piace per tre mesi di seguito senza neppure sfiorarla con un bacio. Un tipo decisamente intrigante che non fa nulla, consapevolmente, per esserlo…

San Diego invece è San Diego: con le sue spiagge, i suoi campi di fragole, il La Jolla Village (situato su un promontorio sull’oceano con un panorama impossibile da descrivere) e con la “U.S. Highway 101. La Pacific Coast Highway. La PCH. Che l’autore descrive così: “Get your kicks on Route 66, certo, ma get your fun sulla Highway 101. La 66 può aiutarvi a scoprire l’America, ma l’American dream resterà un oggetto ignoto fin quando non imboccherete la PCH. La 66 è la Strada: la 101 è la Destinazione. Sulla 66 si viaggia: alla 101 ci si arriva. È la fine della corsa, l’inizio della cavalcata”.

La Pacific Coast Highway, California

Ma a San Diego, la città del sole e dei surfisti, niente è come appare e, il Messico (e i suoi traffici) è sempre, dannatamente, troppo vicino. Come in questa storia, in cui Boone ha il compito (in apparenza abbastanza semplice) di rintracciare una spogliarellista, testimone chiave di una truffa ai danni di un’assicurazione. È convinto di risolvere il caso in 48 ore, prima che su Pacific Beach si abbatta la più grande mareggiata di sempre. Ma non sarà così e si troverà, suo malgrado, a fare i conti con la nebbia che aleggia sui campi di fragole, che si rivelerà poi essere un baratro di oscurità e di violenza.

Ho trovato la storia davvero avvincente e, come aveva preannunciato già Sergio Pent, sono stata letteralmente catapultata sulle assolate spiagge di Pacific Beach e di Ocean Beach e, a volte, nelle stanze disadorne dei motel e in malfamati strip-club che affollano la costa californiana. Ma quello che più mi ha spinta a cercare subito dopo un altro libro di Wislow ambientato nel mondo del surf è stato il protagonista (un altro amore di carta?), anche se è d’obbligo precisare che nei romanzi di Wislow contano tutti i personaggi, anche quelli “cattivi”.

Da qualche parte, una volta ho letto che l’animo del surfista è un po’ come quello del poeta: nomade e irrequieto per natura. Del resto, l’intima connessione con il mare non può che condurlo lontano, facendogli intravedere terre, lingue e aromi sconosciuti. E con gli altri come lui, anche se mai visti prima, egli è disposto a condividere segreti che in pochi saprebbero comprendere. Il legame con il mare lo conduce lontano, dunque, ma alla fine lo riporta su quella stessa spiaggia, insieme a quegli stessi amici, di fronte a quello stesso mare, a respirare quel medesimo odore che per alcuni è “casa”. Ecco, Boone, mi richiama esattamente questo, soprattutto nell’ultima pagina de La pattuglia dell’alba, da cui liberamente estrapolo qualche frase per voi:

Pacific Beach

“Crepuscolo a Pacific Beach.

Fa fresco, tempo da felpe, e la foschia della sera sta iniziando a scendere […]

In piedi davanti alla griglia, Boone sta accuratamente abbrustolendo a fuoco lento tranci di seriola. Con la seriola bisogna andarci cauti. Va cotta piano piano, altrimenti si secca e perde ogni sapore […]

Poi toglie con ogni cautela il pesce dalla griglia e lo dispone sul piatto. Infine sistema sulla griglia alcune tortillas per farle scaldare, ma senza bruciarle […]

Intanto fa scivolare mango e cipolla rossa appena affettati in una ciotola, aggiunge del succo di lime, un piccolo jalapeno e una manciata di coriandolo. Mescola il tutto […]

Dopo di che, toglie le tortillas dal grill, dispone su ciascuna un pezzo di pesce e chiude con una generosa cucchiaiata di salsa di mango appena fatta […]

Boone serve i tacos, poi si concede un istante per guardare l’oceano, il sole al tramonto, la spiaggia quasi senza fine.

Questa è la sua spiaggia, questo è il suo mondo.

I suoi amici.

La sua famiglia.

-Come ho sempre detto, – declama – …tutto è più buono, su una tortilla-“.

Prima di salutarvi, vi segnalo che cliccando qui troverete due ricette per le tortillas, così potrete realizzare i vostri tacos con seriola (ricciola) e mango.

16 thoughts on “TUTTO È PIU’ BUONO SU UNA TORTILLA

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