Due coincidenze sono un indizio
PARTE II
I fatti
Nella notte tra il 30 e il 31 agosto del 1997, la Principessa e Dodi Al-Fayed (un produttore cinematografico e discografico, nonché figlio del ricco imprenditore egiziano Mohamed Al-Fayed) lasciarono l’hotel Ritz di Parigi a bordo di una Mercedes diretti verso rue Arséne Houssaye. Con loro c’erano l’autista (che era anche vice capo della sicurezza del lussuoso albergo Ritz che, allora, era di proprietà della famiglia Al-Fayed) e la fidata guardia del corpo di Dodi. Sarà poi accertato dalle indagini che l’autista guidava a una velocità stimata tra 118 e 155 chilometri orari (in un tratto del Lungosenna in cui il limite era però di 50 chilometri orari) nel tentativo di sfuggire ai paparazzi che rincorrevano la famosa coppia da settimane a caccia di trofei da vendere alle riviste di gossip.
Nel tunnel, sotto la piazza del Ponte dell’Alma, la Mercedes si schiantò contro il tredicesimo pilastro. La mezzanotte era passata da un pò.
È un fatto ormai accertato che, poco prima dell’impatto, ci fossero altri veicoli, oltre quelli identificati, il cui ruolo non sarà però mai chiarito dalle indagini.
L’autista e Dodi (seduto dietro con la Principessa) morirono sul colpo. Le condizioni della giovane donna erano gravi, ma era ancora viva quando, alle 2:06 (quasi 2 ore dopo lo schianto) arrivò nel più grande ospedale di Parigi e di Francia.
Un giovane chirurgo di 32 anni (che oggi si dedica a cure sull’obesità), il cui turno quel fine settimana era iniziato alle 8 del mattino di sabato, ed era ancora in servizio alle 2 del mattino successivo, fu chiamato a prestare i primi soccorsi.
Ufficialmente la Principessa morì alle ore 4:25 per emorragia interna.
La guardia del corpo di Dodi (seduta sul sedile anteriore, l’unico a indossare la cintura di sicurezza) sopravvisse all’impatto, ma rimase in coma per alcuni giorni. Al suo risveglio non fu in grado di dire nulla sugli attimi che precedettero l’impatto perché aveva completamente perso la memoria. E non la recuperò mai più… Però, nel verbale dell’interrogatorio pubblicato dal The Guardian nel settembre 1997, l’uomo dichiarò cosa ricordava prima dello schianto: un vero e proprio inseguimento della Mercedes (iniziato non appena la berlina lasciò il Ritz) da parte di due motociclette (diverse dalle “vespe” generalmente usate dai paparazzi), di una jeep e di un’auto bianca.
Nei giorni che seguirono l’incidente, nove fotografi e un motociclista della stampa furono fermati dalle autorità francesi e accusati di essere in parte responsabili della velocità assunta dalla Mercedes nel tentativo di seminarli.
Nel settembre 1999, dopo due anni di indagine che mobilitarono una trentina di investigatori della Brigade Criminelle, i giudici inquirenti archiviarono il caso contro i nove fotografi, stabilendo che l’incidente mortale era stato causato dall’eccessiva velocità del veicolo e, soprattutto, dallo stato di ebbrezza dell’autista.
Tuttavia, nelle indagini francesi, qualcosa rimase senza spiegazione: il ruolo avuto da una Fiat Uno bianca che avrebbe “speronato” l’auto su cui viaggiava la Principessa. Sulla Mercedes furono scoperte, infatti, tracce di un colore specifico, il “bianco Corfù”, che, una volta analizzate, portarono direttamente al tipo di verniciatura di una nota utilitaria costruita dall’azienda italiana Fiat.
A rigor del vero, agli inizi di novembre del 1997, gli investigatori francesi, lanciarono una vasta operazione alla ricerca del possessore della misteriosa “Fiat Uno” e centinaia di poliziotti si impegnarono a verificare una per una le 40.000 persone cui erano intestate altrettante vetture verniciate di “bianco Corfu”. All’epoca, però, questa colossale ricerca non portò risultati.
La storia dell’incidente della Principessa poteva chiudersi nel 1999 con le conclusioni a cui era giunti gli investigatori francesi della Brigade Criminelle, se non fosse che il padre di Dodi, dichiarò apertamente e ripetutamente che la Principessa e suo figlio erano stati assassinati con la complicità dei servizi segreti francesi, che “si erano premurati” di nascondere le prove. L’uomo era (e rimane ancora) fermamente convinto che la coppia fosse stata vittima di un complotto ordito dalla Royal Family per troncare la loro relazione amorosa.
Già nel 1998, Mohamed mosse accuse molto precise, indicando come responsabile materiale dell’incidente l’MI-6 (i servizi segreti inglesi) e come mandante il Principe Consorte, marito della Regina d’Inghilterra.
Beneficiando di grande ricchezza e notorietà, Mohamed, assunse investigatori e avvocati per provare le sue accuse.
Intanto, nel 2003 (4 anni dopo la chiusura dell’inchiesta francese), il fidato maggiordomo della Principessa, Paul Burrell, rese pubblica una lettera che gli era stata affidata dalla giovane donna nell’ottobre del 1996 con l’ordine di tirarla fuori solo se le fosse successo qualcosa. Nella lettera la Principessa scriveva senza mezzi termini che il marito stava pianificato un incidente automobilistico per ucciderla o ferirla gravemente. La lettera fu analizzata e giudicata autentica e costituì la rivelazione più clamorosa del libro di memorie del maggiordomo (A Royal Duty), pubblicato nel 2003.
Due anni prima della pubblicazione del libro (gennaio 2001), Paul Burrel era anche finito nell’occhio del ciclone per un’indagine condotta da Scotland Yard: fu accusato dalla famiglia d’origine della Principessa di aver approfittato della sua posizione di fiducia per rubarle circa 342 oggetti (fra opere d’arte, cimeli vari, gioielli, documenti, lettere, foto, cappelli, vestiti e scarpe firmati, profumi e gioielli) che si trovavano nella sua residenza di Kensington Palace. Gli oggetti furono effettivamente rinvenuti nella casa del maggiordomo nel nord dell’Inghilterra e l’uomo fu incriminato.
Il suo processo riservò però due colpi di scena. Il primo riguardava ciò che “realmente” Scotland Yard stava cercando in casa di Paul Burrell: uno scrigno di mogano con incisa l’iniziale D sul coperchio che, presumibilmente, conteneva un anello con sigillo regalato alla Principessa dal maggiore James Hewitt (l’uomo con cui la giovane ebbe una relazione dal 1986 al 1991 circa), una lettera di dimissioni da parte del suo segretario privato Patrick Jephson, alcune lettere scritte dal suocero (il Principe Filippo, marito della Regina) e dei nastri registrati. Il dibattimento processuale rese pubblico il contenuto di uno di questi nastri: nel 1996 la Principessa aveva raccolto in maniera informale la testimonianza di un soldato della Guardia che aveva subito dei gravi abusi di natura sessuale da parte di un fidatissimo membro dello staff del principe, ovvero del suo ex marito. Dal processo emerse anche che la Principessa aveva informato subito il principe del presunto crimine del suo dipendente, ma lui l’aveva liquidata dicendole di non dar retta alle chiacchiere del personale.
Il secondo colpo di scena riguardò l’esito stesso del processo: prima che si arrivasse alla fine, la Regina in persona si ricordò improvvisamente di essere stata informata a suo tempo dal maggiordomo che le disse che avrebbe prelevato, dopo la morte della Principessa, alcune cose dalla casa di Kensington Palace “per tenerle in custodia”, al sicuro da occhi o orecchie indiscreti.
A parte il processo per furto a carico del maggiordomo e la lettera della Principessa che accusava l’ex marito, gli inizi degli anni 2000 portarono alla luce altri segreti: 3 anni prima, nel 1997, subito dopo l’incidente, Victor Mishcon (uno degli avvocati della Principessa che l’aveva assistita anche nel divorzio) consegnò a Scotland Yard una nota legale che conteneva i dettagli rivelati dalla Principessa in persona, circa dei presunti tentativi di ucciderla inscenando un incidente automobilistico. L’allora capo di Scotland Yard decise però di non consegnare la nota agli investigatori francesi: la chiuse invece in una cassaforte.
Scotland Yard, London
A fronte delle accuse ripetute di Mohamed Al-Fayed, della lettera autentica della Principessa consegnata al suo maggiordomo e della c.d. Mishcon Note, Scotland Yard fu costretta ad aprire una seconda inchiesta, soprannominata Operation Paget. Era il 2004. Sette anni dopo l’incidente.
Le indagini inglesi (che impegnarono 14 investigatori) si conclusero nel dicembre 2006.
Esattamente un anno prima (dicembre del 2005) fu interrogato l’ex-marito della Principessa (che nel frattempo si era sposato con la sua amante di sempre) in relazione alle precise accuse contenute nella lettera affidata dalla Principessa al maggiordomo Paul Burrell.
Fu invitato a ribattere alle accuse di Mohamed Al-Fayed anche il Principe Consorte (ex-suocero della Principessa), ma questi rifiutò di presentarsi dinanzi alle autorità inglesi perché disse di non aver nulla da dichiarare.
La Regina non fu mai convocata a deporre circa un avvertimento che lei avrebbe fatto a Paul Burrell (che per molti anni era stato anche il suo fedele valletto personale) alcuni mesi dopo l’incidente mortale (precisamente nel mese di novembre del 1997). Del resto la Regina era la Legge ed era la sola persona che in Inghilterra non poteva essere chiamata a testimoniare in un tribunale. La conversazione fra il maggiordomo e la regina fu comunque resa pubblica nel 2003 nel già citato libro di memorie A Royal Duty.
Alla fine, in un rapporto di oltre 800 pagine, le autorità britanniche smentirono tutte le accuse di Mohamed Al-Fayed. In particolare, ogni capitolo di questo rapporto si chiudeva sottolineando che nessuna delle accuse del ricchissimo egiziano poteva essere dimostrata e che tutti gli elementi raccolti mostravano, invece, che la Principessa era morta perché non indossava la cintura di sicurezza in un “tragico e banale incidente stradale”, causato dall’alta velocità e dallo stato di ebbrezza dell’autista.
Inoltre, sebbene questo rapporto fosse un documento interno alla Polizia, Scotland Yard decise di pubblicarlo in rete perché, data l’importanza delle persone “coinvolte”, tutti dovevano aver chiaro una volta per tutte che non c’erano stati complotti e “insabbiamenti”.