Vampa d’agosto e arancini
Come state? Spero tutti bene. Sono passati un bel po’ di mesi dall’ultima volta che ho postato un articolo sul blog…
Oggi è esattamente il secondo giorno d’agosto e le temperature a Milano si aggirano intorno ai 38 gradi. Insomma, vampeggia l’estate e io ho solo voglia di una verandina sul mare e di un calice ghiacciato di Corvo bianco “tradimentoso”, da sorseggiare ammirando il tramonto. E qualcuno che ho conosciuto molto tempo fa è in grado di soddisfare questi miei desideri: il mio “secondo amore di carta”.
Non ha bisogno di grandi presentazioni. Lo conoscete da tempo. Ma se avete dimenticato il momento in cui ve ne ho parlato cliccate pure qui .
Lo incontrai nell’estate in cui mi laureai.
Dopo il 19 luglio, giorno in cui si tenne la mia seduta di laurea, mi sentivo finalmente libera di leggere quello che volevo senza sentirmi troppo in colpa se le mie letture non erano finalizzate ad approfondire l’argomento della mia tesi. Quindi, appena mi fu possibile, andai in una libreria per fare un’adeguata scorta per l’estate, che ricordo essere una delle più belle della mia vita, libera, almeno fino a settembre, da scadenze e pensieri incombenti.
Fui attratta subito dal titolo di un libro, edito da Mondadori. Lo presi e controllai l’indice: era composto da una ventina di racconti brevi. Il titolo dell’ultimo, uguale al titolo del libro, mi fece decidere in un attimo di acquistare il volumetto.
Non sapevo chi fosse Montalbano, ma se nell’ultimo racconto veniva spiegato nel dettaglio (seppur in dialetto siciliano) il procedimento preciso preciso per fare gli arancini (o le arancine, come preferite) secondo la tradizione, allora quel libro doveva essere mio.
Sapevo invece chi era Andrea Camilleri per via degli articoli che scriveva su MicroMega, nonostante non avessi ancora letto nessuno dei suoi romanzi.
Salvo Montalbano mi ha sconcertata fin dal primo momento: e del resto non poteva essere altrimenti, abituata al british aplomb di Holmes (per chi non avesse letto l’articolo precedente, Sherlock Holmes è stato il mio primo amore di carta).
Sherlock (come tutti i britannici) era, infatti, impassibile di fronte a tutto: se gli dicevi che un UFO era atterrato a Kensigton Gardens oppure che nel thé servito dalla signora Hudson c’era una mosca, si limitava, in entrambi i casi, ad ascoltare, ad annuire e a proferire un delicato ed elegante “I’m sorry”. In sostanza, se ne fregava elegantemente. In fondo, questa è l’essenza dell’aplomb britannico, no?
Vi sognereste mai, invece, di associare questa meravigliosa disinvoltura, che porta ad affrontare qualsiasi difficoltà con signorilità, al commissario Montalbano? Se avete dubbi sulla risposta, vi rammento solo le sue reazioni alle “classiche” telefonate di Catarella che lo svegliano: notte o giorno che sia, si alza “santiando” (trad. “bestemmiando”) e guida verso Vigàta mormorando parolacce a tutti gli automobilisti che incrocia, colpevoli, secondo il suo parere, di non conoscere il codice della strada.
Sconcertante. Davvero sconcertante che dopo Holmes mi sarebbe piaciuto un tipo così…così poco british! Uno che non si adatta per niente alle circostanze e alle persone. Di umore instabile e che si lascia spesso e volentieri prendere dall’emotività. Un detective che parla, pensa e sogna rigorosamente in dialetto e che non risolve i casi secondo processi razionali. Uno a cui non dispiace affatto che la fidanzata viva a più di 1000 km di distanza e che preferisce mangiare in religioso silenzio, da solo…
Perché, allora? Vi starete chiedendo.
Per almeno sei ragioni. Vi rispondo.
La prima. Quando ho iniziato a leggere Camilleri, in tv c’erano già le prime trasposizioni televisive (all’inizio su Rai 2) dei suoi romanzi: vi confesso che mi piaceva guardare quel commissario (alias Luca Zingaretti di circa 20 anni fa) che viveva in una casa sulla spiaggia e iniziava le sue giornate all’alba nuotando nudo (qualunque fosse la stagione) e sorseggiando, subito dopo, tre o quattro tazzine di caffè nero sulla verandina che dava direttamente sul mare…Sì, mi intrigava molto, nonostante il commissario dei film assomigliava fisicamente poco a quello “vero” dei libri.
La seconda. All’inizio mi dava una leggera noia che un detective parlasse in dialetto siciliano tutto il tempo (e con lui gli altri personaggi dei romanzi, ad esclusione della sua eterna fidanzata Livia -che però è di Boccadasse, Genova- e della sua amica Ingrid -che invece è svedese). Il mio fastidio però non era dovuto tanto al linguaggio dialettale (anch’io parlo il calabrese con i miei familiari e con i miei amici di giù) quanto, invece, alla difficoltà di cercare di tradurre immediatamente e capire subito il senso (e, a volte, il doppio senso) delle frasi. Tuttavia, andando avanti nella lettura, si comincia a comprendere, e quel complicato, ma spassoso gioco di rimandi e quel dialetto finiscono per accompagnarti direttamente “in fabula”, intrigandoti e inchiodandoti alle pagine del libro senza lasciarti alcuna possibilità di “cataminarti” (trad. “muoverti”). E a chi immagina un Montalbano con poco fascino perché parla solo siciliano, vorrei ricordare che, in realtà, lui è un uomo che coltiva letture molto raffinate che spaziano da Goethe a Proust; da Musil a Melville; da Simenon a Vasquéz Montalbàn; da Dylan Thomas a Saba. L’unica cosa che detesta leggere sono i libri che parlano di mafia.
La terza. Di Montalbano ho sempre ammirato l’integrità morale e la caparbietà nel cercare a tutti i costi la verità. Non risolve i casi secondo processi razionali, alla Sherlock Holmes, per intenderci. La scoperta della verità gli arriva, di solito, come una rivelazione, come “un flash accecante che gli esplode nel cervello”. Ma ha il sangue di sbirro che gli scorre nelle vene, cioè quell’istinto della caccia che lo porta a non dormire se c’è qualcosa che non quadra nelle indagini. Da uomo delle istituzioni, non dispone di quella libertà di azione che è propria, ad esempio, dei detective privati, ma Camilleri ogni tanto gli toglie le briglie e allora conosciamo un commissario di Polizia insofferente a tutto ciò che è burocrazia e perfino contestatore del sistema. Soprattutto quando questo finisce per schiacciare i più deboli. É incapace di mentire alle persone che stima, mentre sa inventarsi le fandonie più incredibili davanti a gente che non rispetta, inclusi alcuni notabili delle istituzioni.
La quarta. Non sarà sicuramente uno spettacolo gradevole vederlo perdere la calma oppure osservarlo in preda all’emotività durante le conferenze stampa (nelle quali diventa rosso, si agita e alla fine si esprime balbettando “con gli occhi sbarrati e le pupille che ballano ‘mbriache”, per dirla con il suo dialetto), ma sono queste cose che lo rendono “umano” e che ci fanno capire che quello che vive non se lo fa scivolare addosso con fredda eleganza e lucida disinvoltura. E al diavolo il british aplomb!
La quinta. Nella serie televisiva Montalbano (alias Zingaretti) è un uomo piuttosto piacente. Ma quello che rende affascinante e sexy il personaggio è, a mio avviso, il suo candore: quel tirarsi indietro con timidezza e gentilezza di fronte alle tentazioni. In ogni indagine, infatti, si è sempre trovato dinanzi una bella donna reticente o collaborativa che, in qualche modo, ha attirato la sua attenzione. A volte il suo cuore ha sussultato davvero, portandolo a cedere alla passione, come nel romanzo “Vampa d’agosto” (Sellerio 2006). Alla fine, però, è sempre tornato da Livia, che neppure lui sa come definire di fronte agli altri: fidanzata, gli sembra un termine antico; ragazza, non è il caso per via dell’età… Comunque sia, quello che ha con lei è un rapporto consolidato dal tempo. Tuttavia, nelle mie fantasie su Montalbano non ho mai voluto essere lei perché, pur essendo la sua “eterna fidanzata”, il commissario la avverte come una presenza ingombrante che gli toglie la possibilità di vivere a suo modo e gli sconvolge le abitudini, anche culinarie. Non è un caso se spesso si dimentica di andarla a prendere all’aereoporto….
La sesta e ultima ragione (e ultima, non per importanza!). In tutti i romanzi di Camilleri in cui il protagonista è Montalbano, il cibo assume un ruolo rilevante. Al commissario piace mangiare da solo o, se in compagnia, in religioso silenzio. Per uno del Sud ciò potrebbe apparire insolito. Ma con il tempo ho capito. Il cibo opera sul palato di Montalbano una “vera ispirazione divina”, agendo come “una sorta di miracolo”. Le pietanze che assapora lo fanno “arriccriare”, verbo usato sapientemente da Camilleri proprio per descrivere il piacere insostenibile che sfiora la dimensione religiosa, estatica, celestiale… Per il commissario mangiare è sognare, immaginare e, nello stesso tempo, tornare bambino.
Ma il commissario non sa cucinare (a meno che non si tratti di un piatto di spaghetti aglio, olio e polpa di ricci) e quindi si affida alla sapienza culinaria di altri. Il giorno, per esempio, va in trattoria, da Calogero.
All’osteria San Calogero lo rispettavano, non tanto perché fosse il commissario quanto perché era un buon cliente, di quelli che sanno apprezzare. Gli fecero mangiare triglie di scoglio freschissime, fritte croccanti e lasciate sgocciolare sulla carta da pane…(La forma dell’acqua, Sellerio 1994, p.67)
Quanno nasci dalla trattoria s’era mangiato tre antipasti, un piatto di spaghetti ai ricci di mare bastevoli per 4 persone e 6 triglie di scoglio fritte al millimetro, eppure si sentiva leggio leggio, pervaso da un benessere tale da stampargli un sorriso ebete sulla faccia…(Racconti di Montalbano, Oscar Mondadori 2008)
In casa però si affida “alla fantasia culinaria ma gustosamente popolare” di Adelina, la vecchia domestica. Quando apre il frigo o il forno, è trepidante ed emozionato e guarda il pasto preparato da Adelina (ricco o umile che sia) come la sorpresa più bella che la giornata possa regalargli.
…nel forno troneggiava una teglia con quattro porzioni di pasta ‘ncasciata, piatto degno dell’ Olimpo, se ne mangiò due porzioni (Il cane di terracotta, Sellerio 1996, pag.120);
Appena aperto il frigorifero, la vide. La caponatina ! Sciavuròsa, colorita, abbondante, riempiva un piatto funnùto, una porzione per almeno quattro pirsone. Erano mesi che la cammarera Adelina non gliela faceva trovare. Il pane, nel sacco di plastica, era fresco, accattato nella matinata. Naturali, spontanee, gli acchianarono in bocca le note della marcia trionfale dell’Aida. Canticchiandole, raprì la porta-finestra doppo avere addrumato la luce della verandina. Sì, la notte era frisca, ma avrebbe consentito la mangiata all’aperto. Conzò il tavolinetto, portò fora il piatto, il vino, il pane e s’assittò. (La gita a Tindari, Sellerio 2000, pag. 219).
Riflettendoci Adelina è l’ unica donna che Montalbano non tradirebbe mai, forse per questo è odiata da Livia. O forse “perché in ‘na casa dove ci stà n’ommo sulo fimmina e fimmina non potino stare (nota del ridatturi)”. Comunque sia, se il commissario è costretto a scegliere fra le due, non è l’eterna fidanzata ad avere la meglio. Come è successo nelle feste di fine anno del 1999, quando si rifiuta di partire con la fidanzata verso la romantica Parigi per poter passare, invece, il Capodanno con la governante. Adelina, infatti, per la contentezza di poter festeggiare la fine dell’anno con entrambi i figli (pregiudicati per piccoli reati), contemporaneamente ed eccezionalmente fuori di prigione, aveva promesso che avrebbe cucinato i suoi deliziosi arancini.
E come dar torto al commissario? Vuoi mettere Parigi con gli arancini di Adelina?
Gesù, gli arancini di Adelina ! Li aveva assaggiati solo una volta: un ricordo che sicuramente gli era trasùto nel Dna, nel patrimonio genetico. Adelina ci metteva due jornate sane sane a pripararli. Ne sapeva, a memoria, la ricetta: Il giorno avanti si fa un aggrassato di vitellone e di maiale in parti uguali che deve còciri a foco lentissimo per ore e ore con cipolla, pummadoro, sedano, prezzemolo e basilico. Il giorno appresso si prìpara un risotto, quello che chiamano alla milanisa (senza zaffirano, pi carità !), lo si versa sopra a una tavola, ci si impastano le ova e lo si fa rifriddàre. Intanto si còcino i pisellini, si fa una besciamella, si riducono a pezzettini na poco di fette di salame e si fa tutta una composta con la carne aggrassata, triturata a mano con la mezzaluna (nenti frullatore, pì carità di Dio!). Il suco della carne s’ammisca col risotto. A questo punto si piglia tanticchia di risotto, s’assistema nel palmo d’una mano fatta a conca, ci si mette dentro quanto un cucchiaio di composta e si copre con dell’altro riso a formare una bella palla. Ogni palla la si fa rotolare nella farina, poi si passa nel bianco d’ovo e nel pane grattato. Doppo, tutti gli arancini s’infilano in una padeddra d’oglio bollente e si fanno friggere fino a quando pigliano un colore d’oro vecchio. Si lasciano scolare sulla carta e alla fine, ringraziannu u Signiruzzu, si mangiano ! (Gli arancini di Montalbano, Mondadori 1999, pag. 329. Se invece volete la mia traduzione con le dosi della ricetta cliccate qui).
Oggi c’è un altro “amore di carta” nella mia vita. Ma questa è un’altra storia che voi conoscete già.
Dolce notte,
Angela
6 thoughts on “Vampa d’agosto e arancini”
Grazie per i tuoi articoli!
Mi fai venir voglia di leggere i libri di Camilleri…
Pubblica presto!
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Grazie per i tuoi articoli!
Mi fai venir voglia di leggere i libri di Camilleri…
Pubblica presto! ❤️
Grazie!
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