
Amori di carta
Eccomi! Sono in vacanza da giovedì: fino al 16 aprile non ho lezioni da preparare e videoconferenze a cui partecipare. Certo ci sono state le pulizie di primavera, ma ormai facciamo tutto con calma, giusto?
Stasera voglio distrarvi e distrarmi dalle preoccupazioni che affollano le nostre giornate da più di 47 giorni. E quale tema è migliore (soprattutto in primavera) dell’amore e dell’innamoramento?
È risaputo che al cuor non si comanda. E, se vogliamo dirla tutta con Blaise Pascal, “il cuore ha ragioni che la ragione non ha”. Orbene, se una mente come Pascal (matematico, fisico, filosofo e teologo) afferma che le questioni di cuore possono seguire una logica diversa di quella razionale e, quindi, non possono essere valutate con gli stessi strumenti con cui si analizza la realtà dei fatti e delle relazioni sociali, chi sono io per oppormi ai c.d. amori non razionali?
Così, quando lo conobbi (circa sei anni fa), con quei capelli scuri e ribelli che gli ricadevano sulla fronte (nonostante la brillantina) e gli occhi del più bel verde smeraldo mai visto, non trovai assolutamente “strano” sentirmi attratta da lui. Nonostante la sua scarsa cura nell’abbigliamento e nonostante il suo segreto inconfessabile che gli conferiva sempre un’aria molto cupa…
Del resto, Luigi Alfredo Ricciardi, classe 1900, commissario della squadra mobile della Regia Polizia di Napoli (nonché barone di Malomonte), non poteva non fare breccia nel mio cuore: ben educato, colto, integerrimo, ricco, timido, discreto e dotato di una speciale capacità in grado di metterlo in contatto con l’aldilà. Quest’ultima caratteristica è quella che lo ha reso più interessante ai miei occhi. Se potessi salire su una macchina del tempo e catapultarmi nella Napoli degli anni ’30, però, non sceglierei di essere Enrica, la timida vicina di casa che Ricciardi “ama a distanza” e con la quale scambia occhiate dalla finestra. Ma vorrei essere Livia, bellissima e sfacciata che lo corteggia apertamente pur non ricevendo (apparentemente) alcuna attenzione da lui. Sono sicura, infatti, che il commissario della Regia Polizia di Napoli è talmente attratto da lei da rischiare di perdere ogni lucidità per fare altro. Ecco perché la sua natura integerrima lo costringe a ignorarla …
Ricciardi e Livia
disegni di Daniele Bigliardo
Tuttavia, il commissario Ricciardi è stato solo l’ultimo dei miei “strani amori”.
Il mio primo “amore di carta” è stato, Sherlock, ovviamente. Sì, proprio lui. L’unico detective privato consulente (come lui stesso ama definirsi) che abita al 221 di Baker Street, Londra.
Ero già una navigata lettrice di gialli di tredici anni quando lo conobbi nella brughiera del Dartmoor, Devon.
Holmes (questo il cognome per i pochi che non avessero ancora capito…) era stato chiamato lì, da un certo dottor Mortimer per far luce su un mistero soprannaturale legato a una vecchia maledizione e a un’orribile creatura che si aggirava nella brughiera (Il mastino dei Baskerville).
Nei romanzi che lessi successivamente, ebbi modo di conoscerlo maggiormente e di apprezzarne meglio le doti: intelligenza straordinaria, notevoli capacità deduttive e analitiche, cultura smisurata in alcune discipline (chimica, anatomia, geologia, botanica, criminologia), violinista apprezzabile ed esperto di scherma. Certo, la pipa, il berretto da cacciatore, il mantello in “Principe di Galles” e il suo caratteristico profilo in cui spiccava il naso affilato e adunco non lo rendevano il detective più sexy del mondo. Tuttavia, il suo singolare modo (per abduzione) di risolvere i casi più disparati gli conferiva, almeno ai miei occhi, un fascino senza eguali.
Neppure l’uso della siringa ipodermica con la quale si iniettava una soluzione di cocaina “al sette per cento”, per tre volte al giorno, gli faceva perdere fascino ai miei occhi. Non lo ritenevo un drogato e lo giustificavo, appigliandomi alle sue stesse parole, tratte dal romanzo Il segno dei quattro: “La mia mente si ribella all’inattività. Datemi problemi, datemi lavoro, datemi il più astruso crittogramma o la più intricata analisi ed ecco, mi sento nella mia giusta atmosfera. Allora posso fare a meno di stimolanti artificiali. Ma detesto la noiosa routine della vita. Desidero ardentemente l’esaltazione mentale”. E, in effetti, quando quest’esaltazione mentale arrivava, vi era una completa metamorfosi in lui.
Ciò che però mi intrigava maggiormente era il suo essere emotivamente distante dagli altri, soprattutto se gli altri erano donne.
Della sfera intima di Holmes si è immaginato molto: misogino, gay, asessuale.
La mia opinione di tredicenne (che allora non aveva letto nulla su di lui se non i romanzi che lo vedevano protagonista) era invece molto diversa: non solo il detective londinese era molto sensibile al fascino femminile, ma nelle relazioni d’amore sarebbe stato talmente incline a lasciarsi coinvolgere da rischiare di perdere il raziocinio. Lo ammette lui stesso, sempre nel romanzo Il Segno dei Quattro: “l’amore è uno stato emotivo, e tutto ciò che è emotivo si oppone a quella fredda ragione che per me sta al di sopra di tutto il resto. Io non mi sposerei mai, appunto per paura di inficiare i miei giudizi”.
Solo Irene Adler (leggi Avventure, Uno scandalo in Boemia), descritta dallo stesso Sherlock come “una donna stupenda con un viso che avrebbe fatto struggere qualsiasi uomo”, riesce a ingannarlo (e, quindi, a essere più scaltra di lui), suscitando tutta la sua ammirazione e forse qualcosa di più…
Ecco, a tredici anni (l’anno di “We Are the World” -U.S.A. for Africa-, di “Money for Nothing” -Dire Straits-, di “All at Once” -Whitney Huston-, di “Into the Groove” –Madonna- e, naturalmente, di “Noi ragazzi di oggi” -Luis Miguel-), io avrei voluto essere Irene Adler (classe 1858) e, invece di urlare alla vista di Luis Miguel che (che con la sua esibizione a Sanremo, aveva fatto innamorare le tredicenni di tutta Italia), immaginavo intricate storie in cui io arrivavo alla soluzione dell’enigma prima di Sherlock Holmes, suscitando la sua ammirazione e, forse, qualcosa di più.
Ma si sa, l’innamoramento ha una “scadenza” e tredici anni dopo ho deciso di lasciare Holmes: complici una terrazza sul mare e un calice ghiacciato di Corvo bianco “tradimentoso”.
Tuttavia, il “trasloco” dal numero 221 di Baker Street, Londra, a Vigata, precisamente, a Marinella, era un evento a dir poco scontato per una buongustaia come me. Non che da Holmes si facesse la fame! Anzi a lui piaceva cambiare a tavola. I suoi pasti, preparati dalla premurosa signora Hudson e consumati insieme a Watson, erano spesso molto ricchi: ostriche, gallo cedrone, vini, whisky, brandy e Porto in buone quantità… E anche la colazione, che poteva essere tipicamente inglese o anche scozzese, consumata sempre intorno alle 9:30 del mattino, non era niente male.
Tuttavia, per me, quella, non era una vera novità, perché da almeno tre anni, attraverso la lettura dei libri di Agatha, sapevo già che la tradizionale breakfast britannica non si limitava solo a uova, bacon, prosciutto e marmellata, ma poteva essere molto varia e raffinata (leggi il mio primo post).
Per farla breve, però, avevo voglia di cambiare aria, avevo voglia del mare del Sud.
Ma prima di lasciare il salotto di Baker Street, la signora Hudson (che ha origini scozzesi), ha preparato una colazione speciale, dicendo che era quella preferita da un medico (anche lui scozzese) che era stato fondamentale per la vita e i successi di Holmes: un certo Arthur Conan Doyle. Lo conoscete? Io credo di aver già sentito questo nome…
Tornando alla colazione, il piatto proposto dalla signora Hudson è sì un piatto scozzese, ma con apporti indiani, molto diffuso ai tempi dell’Inghilterra vittoriana: il kedgeree. Una nostra vecchia conoscenza.
Lo abbiamo incontrato sulle credenze delle breakfast room dei vari colonnelli ottuagenari (nostalgici dei tempi in cui la vecchia Inghilterra possedeva un impero) che animavano spesso i romanzi di Agatha. No, non è vero. In realtà, non ricordo di aver mai letto di questa pietanza nelle colazioni dei personaggi di Agatha. E non è neppure un piatto delle colazioni di Sherlock Holmes. La verità è che ho una fervida fantasia che mi porta a ragionare per associazioni.
E il mio ragionamento è stato questo: il kedgeree è stato ideato nel periodo coloniale dai reggimenti scozzesi ed è stato citato nel 1790 nel ricettario sulla cucina tradizionale della Scozia di Stephana Malcol. Nel 1887, Arthur Conan Doyle, un giovame scozzese, laureato in Medicina (mentre aspettava di diventare un medico, se non di fama, almeno di moda), con un guizzo della sua inesauribile fantasia, trasformò il suo studio medico (ancora vuoto perché non aveva pazienti) in “Uno Studio in Rosso”, creando l’unico consulente detective privato più famoso di tutti i tempi. Ma, siccome lui era uno scozzese, decise che anche chi preparava i cibi per Sherlock e per Watson dovesse esserlo. Perché? Ma è semplice: così poteva servire il kedgeree a colazione, no?
Ora, dopo tutte le abduzioni che mi avete costretto a fare su questo piatto non potete rifiutarvi di cucinarlo. Non è necessario che lo serviate a colazione, come si faceva un tempo, ma è molto indicato in un brunch oppure come piatto unico a pranzo o a cena.
La ricetta che vi propongo è di Jamie Oliver (in Jamie Oliver’s Christmas Cookbook, edito da Penguin Books, ma potete trovare qui la mia traduzione), da accompagnare rigorosamente con una Guinness ghiacciata.
A me, non resta che augurarvi buon brunch o buon pranzo o buona cena … scozzesi.
Felice notte,
Angela
6 thoughts on “Amori di carta”
Interessante! Credo che proveremmo la variante indiana però… Incredibile quanto l’India abbia conquistato il conquistatore con le sue spezie!
Verissimo! Basti pensare che fra i piatti più popolari e “tipici” del Regno Unito ci sono i carry (sia vegetariani sia con carne o pesce) e il pollo tikka masala…
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