
I migliori gialli in Inghilterra, i migliori thriller negli Stati Uniti… oppure no?
Non ho mai fatto mistero della mia preferenza per il giallo classico all’inglese, in cui il movente del delitto è, lasciatemi passare il termine, “ragionevole”, nel senso che l’assassino è mosso dall’idea che abbia “una ragione” per uccidere. E di solito tale “ragione” è riconducibile alla passione o al denaro. Tuttavia, leggo (e mi piacciono) anche romanzi che raccontano di omicidi in cui la natura del delitto è priva del “movente classico” e dove l’agire dell’omicida è collegato ai suoi traumi e alla sua sfera emotiva.
Il mio interesse per questo genere di romanzi è iniziato molto tempo fa: più o meno dopo aver letto Il silenzio degli Innocenti di Thomas Harris. E in seguito, ovviamente, non mi sono fatta mancare nulla: da Stephen King a Michael Connelly, da James Ellroy a Patricia Cornwell. A un certo punto, però, una domanda è sorta in me spontanea: «Perché i serial killer sono soprattutto statunitensi?». Non che in Europa e in Italia, nelle varie epoche storiche, non ci siano stati “personaggi degni” di questo appellativo: basti pensare ad alcuni imperatori romani o a certi signori medievali, fino ad approdare, in tempi più recenti, a nomi più noti, come “Jack lo Squartatore” (1888, Inghilterra) o “Il mostro di Firenze” (1974/1985, Italia). Tuttavia, è innegabile che negli Stati Uniti il fenomeno degli omicidi seriali (almeno fra gli anni 70’/80’) sia risultato più evidente che altrove. È la stessa FBI a sostenerlo: secondo alcuni rapporti risalenti agli anni ’80, pare che, in ogni dato momento, i serial killer attivi sul territorio americano fossero all’incirca trentacinque (fonte: Wikipedia). Certo, questi numeri devono essere ricondotti sia alle tecniche di investigazione (che in America Settentrionale e in Canada sono notoriamente molto avanzate, permettendo di individuare e collegare velocemente le vittime di uno stesso omicida) sia all’assenza di censura da parte dei mezzi di informazione (in alcune nazioni, invece, le storie relative a omicidi seriali sono state spesso taciute: è il caso, per esempio, del serial killer ucraino Andrei Chikatilo, le cui attività furono scarsamente investigate dalla polizia dell’ex Unione Sovietica, a causa dell’idea che solo nelle corrotte società capitaliste occidentali questo tipo di assassini agiva e proliferava). Ma anche tenendo conto di questi elementi, nell’immaginario collettivo (e soprattutto nel mio) i serial killer sono ”tipicamente” americani e, mutatis mutandis, i migliori scrittori di thriller o di noir sui serial killer “devono” essere americani.

Naturalmente ho le mie ipotesi sul perché i serial killer abbiano trovato terreno più fertile in America, rispetto ad altri posti, ma questa è una storia che vi racconterò un’altra volta. Quello su cui invece vorrei soffermarmi, è che i miei “pregiudizi” riguardo agli autori di thriller “nostrani”, per anni, mi hanno impedito di leggere romanzi che invece mi avrebbero lasciata con il fiato sospeso fino all’ultima pagina e che nulla avrebbero avuto da invidiare a quelli scritti dai più autorevoli scrittori americani del genere.
Sapevo del successo internazionale dei thriller di Donato Carrisi. E sinceramente mi sentivo anche orgogliosa che un autore italiano avesse raggiunto simili livelli in questo genere letterario, ma non mi ero mai lasciata tentare dalle pile dei suoi volumi sistemati in maniera più o meno accattivante in ogni libreria in cui sono entrata in questi ultimi anni. Era più forte di me: i migliori gialli in Inghilterra, i migliori thriller negli Stati Uniti…
Ho iniziato a leggere i libri di Carrisi, grazie a mio figlio di 11 anni che, fortunatamente invece, si è lasciato tentare da una colonna dei suoi libri collocata all’entrata della libreria che frequentiamo abitualmente. Ha scelto a caso, acquistando per il mio compleanno proprio il primo libro scritto da questo autore: Il Suggeritore (2009).
Mio figlio sapeva dei miei pregiudizi sui gialli e sui thriller e, quando ha notato che il libro, dopo giorni in cui me lo aveva donato, era ancora “parcheggiato” su uno scaffale della libreria invece che sul mio comodino, po’ deluso mi disse: «Sapevo che il mio regalo non ti sarebbe piaciuto».
Con un bel po’ di sensi di colpa, iniziai a leggere Il Suggeritore. E già il primo rigo mi convinse. Il fatto che le località in cui si svolgevano gli eventi fossero debitamente annerite o volutamente taciute mi rassicurò: la mia idea che un bel thriller “doveva” avere come ambientazione un qualche posto degli Stati Uniti (San Francisco, Seneca Lake, Milwaukee, Salt Lake City, Seattle…) per essere interessante, per il momento poteva ritenersi salva, considerato che i luoghi non venivano specificati.

Andai avanti con la lettura del romanzo per tutto il pomeriggio. La storia non mi dava letteralmente tregua: un condensato di colpi di scena che mi trascinava in una sorta di giostra pericolosa che si muoveva velocemente fra tensione e rischio continui. E mentre gli inganni, sapientemente celati nella trama, cadevano uno dopo l’altro, mi accorsi che era già l’alba e che dovevo iniziare a prepararmi per andare a lavoro.
Nel pomeriggio del giorno successivo il libro era bello e finito e io fui come colta da una “crisi di astinenza”: dovevo necessariamente avere un altro libro di Carrisi prima che arrivasse la notte. Mi ricordai che nella piccola sezione dedicata ai libri dell’Esselunga avevo visto altri volumi dello stesso autore di cui, però, non ricordavo i titoli. Così, con la scusa della spesa, mi recai in fretta al supermercato. In effetti, trovai ben tre libri di Carrisi: La casa delle voci, La casa senza ricordi e La casa delle luci. Era chiaro che si trattava di una trilogia e che quindi dovevo comprare tutti i volumi. Subito.Una volta a casa, iniziai la lettura de La casa delle voci. Non mi interessava più dove fosse ambientata la storia: ormai mi fidavo di quell’autore. E fu così che mi innamorai della italianissima Firenze. Ma non della città d’arte invasa dai turisti che siamo abituati a vedere, ma di quella Firenze autentica, piovosa, magica, nascosta, dove ogni singola pietra sembra avere una sua storia da raccontare. E mi innamorai (naturalmente) di Pietro Gerber e del suo modo di lavorare.

Proprio mentre sto completando di scrivere questo articolo, la Longanesi Editore ha postato (per me a sorpresa) l’immagine del nuovo romanzo di Donato Carrisi, disponibile dal 29 ottobre in poi: La casa dei silenzi.
La “trilogia delle case” non è più dunque una trilogia e fra 39 giorni esatti potrò star sveglia fino all’alba con il mio nuovo amore di carta.