Da un buon caffè a una cotriade…
Nel post precedente vi ho salutato con la promessa che avrei trovato una soluzione alla penuria di cibo del romanzo. E posso assicurarvi di esserci riuscita. Beh, ovviamente non ho costretto Martin Bora a mangiare le ostriche di Aven-Belon (dal sapore leggermente zuccherato) o quelle della baia di Quiberon (dal profumo complesso e intenso). Né gli ho intimato di cercare nel Finistère una trattoria che cucinasse l’astice blu, tipico del mare che bagna la Bretagna. Lo confermo: almeno in Piccoli fuochi, Bora non sembra avere tempo e voglia per nutrirsi e, a parte il caffè, che in tempi di guerra è di cicoria tostata, non sembra desiderare altro.
Ma a pensarci bene, se mi mettessi nei panni di Bora, anch’io, in tempi di privazioni, desidererei un buon caffè più di ogni altra cosa… In effetti, prendere un caffè è per me un rito sacro da sempre. E io ho iniziato abbastanza presto. In seconda media avevo già abbandonato il tazzone di caffellatte ed ero passata alla tazzina colma di liquido nero, bollente e molto zuccherato. Non ricordo che mia madre abbia mai protestato più di tanto per tale cambiamento. Ricordo invece che preparava la moka alle sette del mattino e che metteva due tazzine, con dentro già lo zucchero, sul tavolo della cucina, aspettando il gorgoglìo e il profumo che da lì a poco avrebbe inondato tutta la casa. Lei non beveva caffè, ma lo ha sempre preparato per me e per mio padre, prima, e per i miei fratelli dopo. Adesso so che le sue non erano tazzine qualsiasi: erano tazzine che veicolavano amore.
Il caffè è anche la prima cosa che ho preparato in cucina completamente da sola: la prima tazzina è stata per Aurora, una carissima amica d’infanzia con cui sono cresciuta.
Ai tempi del liceo, invece, la caffeina ha cominciato a scorrere letteralmente a fiumi nei miei interminabili pomeriggi di studio, complice la mia storica compagna di banco, Carmelina, che si portava sempre dietro dei chicchi di caffè profumatissimi che tirava fuori all’occorrenza. Quando andavo a casa sua per studiare, le noiosissime traduzioni di greco e di latino erano sempre inframezzate di tazze di liquido nero bollente, reso speciale dalla “cremina” (fatta con il primo caffè che esce dalla moka, montato ad abbondante zucchero).
Ricordo che durante gli esami di maturità, per una ventina di giorni, sono andata avanti nutrendomi di Kant e caffè bollente e di nescafè ed Hegel. E quando le temperature inesorabilmente salirono, perché ormai si era intorno al 20 luglio, al caffè caldo alternavo la granita di caffè o la “Brasilena” freddissima (una bibita a base di acqua minerale e caffè creata negli anni ’80 nella regione in cui sono nata). Inutile sottolineare, poi, che anche negli anni dell’università il caffè ha continuato a essere la mia ancora di salvezza, soprattutto quando dovevo scrivere di notte i capitoli della mia tesi.
Ma il caffè, per me, non è solo un energizzante: è anche un momento piacevole, un piccolo frammento di felicità che ho cercato sempre di condividere con qualcuno. Quando vivevo nel Sud e non avevo ancora un lavoro a tempo pieno, il caffè con le amiche era il momento delle chiacchiere spensierate e delle confidenze più segrete e, se non avevo impegni stringenti, finiva con il trasformarsi in una lunghissima pausa! Oggi i mie ritmi sono simili a quelli di tutti i lavoratori della città meneghina e quindi la pausa caffè è veloce e condivisa con le colleghe davanti a un distributore automatico. Ma rimane comunque un momento positivo e un’occasione di confronto.
E per concludere la rassegna dei ricordi legata al caffè, quello più buono in assoluto, che preparava zio Franco: era straordinariamente aromatico, forte e cremoso, nonostante fosse fatto con la moka di casa. Mio zio era un vero intenditore e preparava da sé la sua miscela. Circa due mesi prima che ci lasciasse, mi ha svelato i segreti della sua indimenticabile tazzina: in proporzione 1:1 mescolava il caffè di Portorico, che comprava in un delizioso negozietto specializzato in caffè pregiati, ad almeno sei marche di caffè tostati in Italia e facilmente reperibili nella grande distribuzione (Gugliemo Cinque Stelle, Mauro, Aiello, Lavazza Oro, Illy e Kimbo). Il risultato era una combinazione indefinibile di arabica e robusta, dal sapore tondo e dal retrogusto leggermente fruttato. Insomma, l’America del Sud, l’Etiopia e l’India in una tazzina!
Ora torniamo a noi. Il caffè si adatta moltissimo al mio ospite e soprattutto alla situazione: da circa tre settimane, sto facendo la pendolare fra Milano e l’università in cui insegna e fa ricerca Lorenzo, il mio ex-tutor, responsabile dei gialli “a sorpresa” di Natale, nonché l’ospite (inconsapevole) che ho scelto per questo post. Lorenzo ama il caffè e il suo “stile” tende a essere “essenziale” come una tazzina di espresso senza fronzoli e senza zucchero. Così, dopo aver tenuto una lezione congiunta sulle trasformazioni sociali e sulla crisi dei modelli di relazioni industriali che si sono affermati nel XX secolo, invece di prendere subito la metro per andare alla stazione dei treni, gli ho chiesto se gradiva un caffè. Capite bene che un caffè, dopo aver trattato questi argomenti, non solo era gradito, ma assolutamente necessario… Appena fuori dall’università c’è un piccolo bar che ha i tavolini all’aperto, ci siamo seduti e abbiamo ordinato due espressi. Prima che ci portassero le tazzine, però, ho tirato fuori una scatola di latta dalla mia borsa… Va bene l’essenzialità, ma fino a un certo punto! Non potevo cavarmela solo con un caffè e così, il giorno prima, ho preparato dei biscotti che sono tipici della Bretagna: i sablés bretons (o galettes bretonnes) fatti con burro salato (tipico di quella regione), zucchero a velo, farina, uova e cristalli di sale in superficie. Ecco, questa è la ricetta che ho pensato di abbinare al romanzo e al mio ex tutor. A Lorenzo, perchè tanto tempo fa mi disse di adorare gli shortbread (che sono biscotti al burro) e di essersi nutrito praticamente solo di questi e di latte quando studiava presso la London School of Economics and Political Science. Al romanzo, perché i sablés bretons si adattano bene anche al clima di austerity che aleggia nel libro. Dei biscotti impastati con pochi ingredienti, non sono incompatibili, infatti, con i tempi di guerra e, anche, se Ben Pastor ha omesso di scriverlo, sono sicura che Antoinette, la cameriera di Marie (la vittima) o Katen, la merlettaia, li preparassero per accompagnare i loro caffè di cicoria. D’accordo mi sto lasciando prendere dall’immaginazione… Comunque, sono biscotti “essenziali”, ma dal gusto che non ti aspetti: croccanti, pieni del gusto avvolgente e confortante del burro, con piccoli cristalli di sale in superficie che scrocchiano a ogni morso…
Ho recuperato la ricetta dei biscotti (clicca qui) su un sito francese (www. marmiton.org), ma cercando ho notato che ci sono più varianti.
Il post sulle ricette di Piccoli Fuochi avrebbe potuto essere concluso qui. Magari riportando i commenti di Lorenzo sui biscotti… ma il giorno seguente sarebbe stato sabato, giorno di mercato. Giorno del pesce fresco. No, non potevo ancora pubblicare questo articolo. Almeno non prima di aver cucinato la cotriade. Cos’è? La cotriade è una zuppa di pesce originaria della Bretagna marittima, simile alla bouillabaisse marsigliese. Nella regione se ne trovano molte varianti, ma l’elemento comune è sempre un mix di pesce azzurro tra cui sgombro, merluzzo, grongo, sardine, gallinelle e orate. A questo mix si aggiungono patate, cipolle e una vinaigrette con erbe fresche. Quest’ultimo ingrediente può sorprendere, ma un tempo questo piatto era preparato con erbe marine e acqua di mare e per attenuare la presenza del sale si aggiungeva la vinaigrette. La zuppa è spesso servita con crostoni di pane di segale all’aglio (qui la ricetta).
Un tempo i pescatori preparavano la cotriade a bordo o sul molo, con il pesce non venduto del giorno e sembra che il suo nome derivi proprio da cotrets, ovvero “pezzi di legno”, utilizzati per il fuoco che teneva caldo il pentolone in cui si faceva cuocere la zuppa.
È incredibile come la gente di mare finisca per avere le medesime idee e le stesse semplici abitudini in ogni porto. Anche nella città di mare vicina al mio paese di origine c’era un’usanza simile fra i pescatori: si cucinava il pesce che avanzava dalla vendita direttamente sulla lampara, condito con acqua di mare e alghe… Solo che i pescatori della mia zona d’origine non avrebbero mai preparato il soffritto, che poi avrebbe accolto il pesce, con del burro! Mai!
Adesso mi chiederete da dove è spuntata questa ricetta, considerato che ho sottolineato più volte che nel libro non c’era molto in fatto di cibo… Sono semplicemente arrivata quasi alla fine del romanzo ed ecco il gustoso piatto. Tuttavia, non è il nostro detective ad assaporarlo: è il capitano Ernst Jünger, il grande scrittore realmente esistito, che Martin rintraccia in Bretagna. Ricordate? Jünger aveva lasciato il suo reggimento senza avvisare i suoi superiori e Martin, fra i vari suoi incarichi, aveva anche quello di cercarlo. Beh, lo rintraccia a Brest, nel nord della Bretagna e lo scrittore tedesco si rivelerà anche un valido aiuto per le indagini sul delitto di Marie Goulemen. Anzi, nel ristorante dove Bora lo raggiungerà per discutere delle indagini, Jünger paragona gli elementi, vari e disparati, che sono stati raccolti riguardo al delitto alla famosa zuppa di pesce del luogo, la cotriade, appunto:
Abbiamo solo una serie di elementi disparati, una zuppa di pesce metaforica: un piano omicida fallito ma non troppo, visto che il suo vero oggetto era la mandante stessa; un assassino che può non aver ricevuto il suo compenso; alcuni individui con motivi di risentimento nei riguardi di Marie, come la Mome, suo marito e perfino il figlio. E poi abbiamo le spezie: l’infedeltà coniugale, un figlio indebitato e un furgone rubato, con il condimento di soldati tedeschi e civili bretoni che vanno e vengono da Brest, come il sergente Mazurek, il suo ambiguo comandante, Drez Le Polozec, l’ex assessore Guillou…E cinquantamila marchi destinati a persone o istituzioni ignote.
L’intenso aroma che proveniva dalla cucina doveva essere stato fra i più invitanti, ma, anche in quella circostanza, a Bora veniva la nausea alla sola idea del cibo. Jünger, dal canto suo, si munì invece di posate e, non mancando di sottolineare che, anche se era un po’ presto per il pranzo, lui era abituato a nutrirsi quando aveva fame, attaccò con decisione il suo piatto fumante.
Ecco, ora questo post può dirsi concluso e io posso salutarvi, augurandovi un buon week end.
Angela
6 thoughts on “Da un buon caffè a una cotriade…”
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