Sogni nel cassetto

Sogni nel cassetto

Quando, all’età di 10 anni, iniziai a leggere i gialli di Agatha Christie (se ti interessa, leggi qui), mi innamorai talmente tanto del suo modo di scrivere che mi assaliva l’ansia al solo pensiero che prima o poi i suoi libri sarebbero terminati.

Del resto era una preoccupazione più che legittima: dal 1920 (anno in cui fu pubblicato  Poirot a Styles Court,) al 1976 (anno della sua morte), la regina del giallo era riuscita a scrivere 66 romanzi. Facendo un rapido calcolo, se io continuavo a leggerne 2 a settimana, in meno di un anno (precisamente 8 mesi) avrei fatto fuori tutta la sua produzione. Per fortuna (o sfortuna) non riuscii a mettere subito i miei teneri artigli su tutti i gialli di Agatha e quindi ho potuto “assaporare” nel tempo le atmosfere british dei suoi romanzi.

Agatha Christie

Ma anche centellinandone la lettura, a un certo punto, i gialli della regina del Mistery terminarono inesorabilmente. Così, per consolarmi, decisi di scriverne uno io: con le stesse atmosfere british, ma ambientato nella contemporaneità.

Era il 1988. Ed era estate. Una calda estate. Di quelle che solo il Sud sa infliggere. E per non pensare a quel caldo atroce, decisi di ambientare le vicende del mio giallo nel periodo natalizio. Iniziò così la stesura di “Natale in Cornovaglia”, in cui la protagonista/detective era una giovane giornalista di Londra (all’epoca avrei voluto diventare una giornalista e la Gruber era il mio modello) che non avendo nessuno con cui trascorrere il Natale, decide di andare da una zia che abitava in Cornovaglia, nei pressi di Falmouth…

In quel periodo non avevo un computer e tutte le ricerche (geografiche, storiche, di attualità, ecc.) che potevano servirmi per il libro, le effettuavo sul cartaceo. La stanza che condividevo con mia sorella sembrava davvero l’ufficio di una reporter, con appunti incollati ovunque.

Per scrivere usavo una Studio 45 di Olivetti, dal caratteristico color Tiffany, prestito di un’amica.

Scrivevo con molta lentezza e con un solo dito ma, nonostante tutto, finivo con il fare errori che correggevo con il bianchetto. Quando poi non mi piacevano interi periodi, tiravo via il foglio dalla Olivetti, lo appallottolavo e infine lo lanciavo con fare rabbioso nel cestino, ricominciando da capo.

Gli infissi della mia stanza erano socchiusi, in modo da lasciare filtrare solo la luce necessaria. La tazza del caffè, rigorosamente caldo, era sempre alla mia destra, pronta a sostenermi nei momenti di stanchezza.

Quell’estate scrissi un centinaio di fogli. Poi li conservai in un cassetto, certa che prima o poi li avrei tirati fuori per proporli a qualche casa editrice.

Il dattiloscritto mi venne fra le mani solo 12 anni dopo, quando ormai fresca di laurea, pensavo solo alle “cose serie”. Però lo rilessi. All’inizio divertita, poi sorpresa, perché tutto sommato c’erano descrizioni di luoghi, di personaggi, di stati d’animo che non erano niente male…

In particolare, rimasi stupita da una conversazione che mi ero inventata fra la zia della mia protagonista e una delle sue vecchie amiche (classiche zitelle “alla Miss Marple”). Il dialogo immaginario riguardava il modo in cui doveva essere cucinato il tacchino perfetto per Natale: un pezzo scritto con un certo brio e che conteneva importanti indizi per la risoluzione di quel giallo…

Ripensandoci ora, il nesso romanzi gialli-cibo era già nella mia testa fin da allora.

La presenza di Agatha aleggiava in ogni foglio dattiloscritto, ma c’era comunque qualcosa che rendeva mie e solo mie quelle pagine.

Non scrissi mai la fine del mio giallo, anche se sia la trama sia l’epilogo (con tanto di colpo di scena finale) erano ben definiti nella mia testa.

Perché non finii mai il libro? Perché non mi bastava che solo “qualcosa” fosse mio. Volevo che tutto fosse mio. Per quanto amassi e stimassi Agatha, non volevo che il mio fosse solo una copia accettabile e “spostata” nella contemporaneità dei suoi romanzi.

Tuttavia, a quel tempo, non riuscivo ad afferrare quello che mancava ai miei scritti e così smisi semplicemente di scrivere.

Solo di recente ho capito. E ho capito leggendo alcuni gialli di una scrittrice torinese che è stata nominata a pieno titolo l’Agatha Christie italiana, per i suoi intrighi eleganti e “incruenti”.

La scrittrice a cui mi riferisco è Gianna Baltaro.

Con molta sincerità, devo confessare che, fino allo scorso anno, ignoravo chi fosse. Eppure, per parecchi anni, ha svolto un’intensa attività giornalistica, cominciando dalla Cronaca Nera (è stata la prima cronista di Nera torinese e una delle prime in Italia) e collaborando con testate importanti (come “La Gazzetta del Popolo”, “L’Unità”, “La Stampa”, “La Stampa Sera”, “Il Giorno” e “L’Occhio” di Milano, “L’Ora” di Palermo) e con la RAI.

Negli anni Novanta inizia a scrivere libri polizieschi, dando vita alla figura dell’investigatore Andrea Martini, che svolge le sue indagini nella Torino del 1930, città sapientemente descritta dall’autrice, che ne sa cogliere i cambiamenti, le realtà opposte e l’incredibile fermento di quegli anni.

La sua scrittura, pulita e asciutta, ricorda molto quella di Agatha: come quella della regina del Mistery, ha il pregio di facilitare la comprensione delle varie fasi delle indagini e di far immedesimare il lettore nelle vicende raccontate.

Gianna Baltaro

Seguendo le sue narrazioni, al lettore sembra quasi di ritornare negli anni ’30 e di camminare per le strade della città della Mole, magari in cerca anche lui di una cremeria in cui fermarsi a bere una cioccolata calda. E anche chi non conosce Torino, non può avere dubbi che le descrizioni fornite dalla scrittrice siano autentiche e basate su attente ricerche storiche.

I gialli di Gianna Baltaro sono 18 e ruotano attorno al pacato Andrea Martini, ex commissario della Squadra Mobile di Torino, che offre la sua “expertise” alle forze di polizia in casi che richiedono notevole intuito investigativo.

Il fascino discreto che l’autrice ha saputo donare al protagonista è probabilmente uno dei maggiori punti di forza dei suoi romanzi.
Andrea Martini non è mai alla ricerca della fama come molti suoi “colleghi” investigatori dell’epoca (Poirot incluso). Ciò che lo spinge a lasciare la pace dei suoi vigneti e delle campagne albesi sembra essere solo il suo desiderio di giustizia.

Prima vi dicevo che solo recentemente, leggendo Gianna Baltaro, ho saputo individuare anche gli elementi che mancavano al mio giallo incompiuto. Tali elementi sono: un contesto “reale” e profondamente conosciuto da chi scrive in cui calare vicende e personaggi (vedi, per esempio, la Torino del 1930 conosciuta dalla Baltaro attraverso i suoi primi ricordi o i ricordi della madre, e ricreata grazie ad attente ricerche) e una maggiore caratterizzazione del detective (nel mio caso, della giornalista che si improvvisa detective).

Accanto ai già citati 18 volumi scritti da Gianna Baltaro, nel 2010 (due anni dopo la sua morte),  è stato pubblicato anche un diciannovesimo giallo ricavato da un incipit di un suo romanzo: gli autori di questo nuovo libro sono Bartolone & Messi (più precisamente Enzo Bartolone e Daniela Messi). È stato proprio il loro profilo Instagram (“bartolonemessi”) a farmi scoprire la giallista torinese.

Fra i libri della scrittrice torinese che ho letto nell’ultimo anno, quello di cui vorrei parlarvi è Nelle nebbie del Gambero d’oro.

Il libro mi è piaciuto, poiché è un giallo classico, in cui l’investigatore  scopre l’autore del delitto all’interno di una cerchia abbastanza ristretta di personaggi, arrivando alla soluzione del mistero grazie all’analisi e all’interpretazione di indizi che sono nascosti e fuorvianti.

Chi mi legge da tempo, sa che io adoro questo tipo di giallo (clicca qui) perché lo scrittore (in questo caso una scrittrice) sembra lanciare una sfida al lettore: chi legge ha esattamente le stesse possibilità di arrivare alle conclusioni del detective e, quindi, di individuare il colpevole.

Nelle nebbie del Gambero d’Oro (Golem Ed.) è un romanzo giallo dalla trama efficace, ben improntata sulla ricerca della verità. I personaggi risultano vivi, reali, pieni di contraddizioni, così come possono essere le persone nella vita reale.

L’ambientazione è fra gli elementi del libro che più mi è piaciuta: la stagione autunnale con quella nebbia che, a volte, impregna e rende incerti i contorni di ogni cosa; a volte, si apre lasciando intravedere i vissuti dei personaggi che animano il romanzo.

Last but not least, il cibo: il suo buon odore sembra trapelare sin dalle prime pagine con la fragranza di brioche appena sfornate che si spande dalla panetteria di via dei Mercanti e segue con una scia profumata il garzone del fornaio che ha appena iniziato il giro dei palazzi signorili della zona, dove le domestiche erano in attesa delle paste per servire la colazione...

Nel proseguo del libro le occasioni in cui il cibo entra a pieno titolo nelle descrizioni dell’autrice diventano anche più interessanti, grazie alle “incursioni” culinarie del commissario Piperno (incaricato ufficiale dell’indagine) e alle ricette sapientemente cucina da Teresa, la sorella da cui  Andrea Martini è ospite.

Di Piperno rimangono memorabili i suoi “spuntini” a base di rosette, grissini rubatà, salame, acciughe in verde e toma del Lanzo, consumati nelle trattorie torinesi; della sorella di Martini, degne di nota sono la trippa alla moda di Moncalieri; l’insalata russa; il vitello tonnato, la lingua alla salsa verde e gli agnolotti al sugo di arrosto.

Grissini torinesi

Ma veniamo alle vicende del Gambero d’oro. A raccontarcele è direttamente Gianna Baltaro…

            La Contrada del Gambero d’oro era un mondo raccolto, turbato da pochi rumori: il brusio delle voci, lo scalpiccio dei passi, qualche rintocco di campana e, di tanto in tanto, lo sferragliare di un tram, di passaggio in via Micca. Un borgo dove si conduceva una vita un po’ paesana; in primo luogo perché tutti si conoscevano, e poi perché la presenza di tante botteghe artigiane e di negozi di ogni genere dava alla comunità una certa impressione di autonomia.

            Come ogni giorno, all’angolo di via Monte di Pietà con via Pietro Micca, davanti al piccolo bar Beccuti, sostavano tre o quattro uomini che erano soliti incontrarsi per il rito del primo caffè, commentando le notizie riportate dai giornali…Quel giorno gli habitué del bar Beccuti erano presi dalla discussione sui pro e sui contro delle innovazioni che in quella fine di ottobre del 1933 si stavano apportando alla città di Torino. La polemica era destinata a durare a lungo, senonché, a un certo momento, venne a crearsi tutt’attorno una strana animazione.

            La gente correva e parlava a voce concitata. Un assembramento di persone andò a formarsi nel piccolo slargo ai piedi della scalinata di San Tommaso, quasi accerchiando l’edicola dei giornali delle tote Calligaris.

Il brusìo si alzò di tono e una voce di donna, superando le altre, gridò –L’hanno trovata.

Una ragazza di diciassette anni, che si chiamava Marina e abitava in via San Tommaso, era stata trovata morta nella cantina di casa sua.

            La confusione era al massimo quando una voce autorevole superò il brusìo –Non perdiamo altro tempo. Bisogna chiamare la polizia.

            Qualcuno dei presenti propose Andrea Martini, ex funzionario di Pubblica Sicurezza, e il suggerimento venne accolto immediatamente.

Della missione venne incaricato il garzone del bar, il quale, inforcata la bicicletta, si avviò verso piazza San Carlo dove aveva sede la Questura Centrale.

            Al momento, Andrea Martini si trovava proprio a Torino per un congresso enologico e stava approfittando dell’occasione per trattenersi qualche giorno nella sua città.

            Come ogni volta che soggiornava a Torino era ospite di una sua sorella maggiore che abitava con il marito in un palazzo di via Barbaroux, all’imbocco di piazza Castello. Quindi entrava quasi di diritto a far parte della collettività dei residenti della Contrada del Gambero. Perciò il fatto della ragazza trovata morta in via San Tommaso, interessava Martini non solo sotto il profilo professionale, ma stimolava anche il suo senso di solidarietà con la gente del “Gambero”...

            Riuscirà il nostro ex-commissario a svelare l’identità dell’assassino di Marina? Riuscirà a chiarire le circostanze che hanno portato alla morte della giovane? E io, riuscirò a realizzare a mano gli agnolotti al sugo di arrosto? Oppure mi butterò sulla lingua in salsa verde che non mangio dai tempi in cui ero bambina?

            Lo scoprirete nel prossimo post…

3 thoughts on “Sogni nel cassetto

  1. Ma che meraviglia! Raramente ho letto una recensione così bella, scritta così bene, così sincera… e così affettuosa. A nome di Bartolone & Messi e… di Gianna Baltaro, Grazie!

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